Avvenire, 14 maggio 2023
Essere santi
Dove sono i santi di oggi? Forse hanno il brutto difetto di essere discreti? In effetti la Chiesa ha sempre proclamato che la stragrande maggioranza dei santi del cielo non è famosa, e quindi non è stata canonizzata. Eppure una cosa è certa, ahimè: sono tutti passati per quella “eroicità” senza cui non potrebbero affatto pretendere di avere l’aureola. Non esistono santi se non tra gli avventurieri descritti da Bernanos un secolo fa, e potrebbe risultare difficile scovarne qualcuno tra la gente perbene, quella “sistemata”.
Purtroppo per me, che sogno solo di “sistemarmi”, Dio mi ha fatto cristiano. Non solo mi ha dotato di una coscienza, ma mi ha anche immerso nelle acque del battesimo. Ed è in un soprassalto di grazia impura che grido, insieme all’antico autore della Lettera agli Ebrei, che «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,31). Infatti mi lacera il contrasto tra ciò che protesta la mia carne – non accollarti il fardello di essere cristiano! – e ciò che la mia anima intuisce: che la santità è l’unica felicità possibile. E se Cristo, lui solo sa come, mi ha attirato a sé, non ho potuto fare altro che accettare di lasciarmi unire a lui e continuare ogni giorno a volerlo. Niente e nessuno, infatti, mi costringe a essere cattolico. Niente e nessuno mi trascina a messa la domenica, niente e nessuno mi costringe a fare del Vangelo l’orizzonte della mia vita. E quindi perché mai resterei nella Chiesa, se non per diventare santo? Ma è davvero possibile? Nessuna morale, nessuna fede al mondo è più esigente della religione cristiana: «Amatevi gli uni gli altri»; «Amate i vostri nemici, fate del bene a chi vi perseguita»; «Prendi la tua croce e seguimi». Non ci culleremo certo nella convinzione che la pratica ecclesiale si riassuma ancora nel vanto di appartenere alla casta, sempre meno credibile, sempre meno potente e sempre meno visibile, dei cattolici occidentali!
Eppure, nel nostro mondo moderno è emerso un enorme enigma. Una pretesa inverosimile, tanto più inverosimile quanto più si è diffusa fino a diventare una vera e propria legge: i cristiani non vogliono più essere santi. Questa affermazione – questa accusa terribile e, me ne rendo conto, imperdonabile – non è frutto di un giudizio affrettato. Sono io stesso cristiano, membro a pieno titolo della Chiesa, e dopo avere parlato con tanti cristiani (posso dire di averne sentiti davvero tanti), ho sentito molti di quegli stessi cristiani – cioè battezzati che si definiscono cristiani – affermare in piena consapevolezza, confessare, riconoscere e professare qualcosa di insostenibile: non vogliono essere santi, non cercano di essere santi (e tantomeno sperano di esserlo). E a volte si spingono a pretendere di non sapere che la Chiesa, che Cristo, non chiedono altro che non sia la volontà di essere santi; nient’altro se non che ci lanciamo in quell’avventura. Papa Francesco, resosi conto di questa catastrofe, ha pubblicato nel 2018 un’Esortazione Apostolica in cui ricorda a tutti i cristiani che la santità è la loro unica vocazione e l’unico motivo della loro presenza nella Chie-sa. Quella Esortazione Apostolica «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» era intitolata molto acutamente Gaudete et exsultate («Rallegratevi ed esultate»). Ma chi mai, nel nostro vecchio Occidente, prende sul serio un’esortazione del genere? Chi è che si rallegra ed esulta quando gli viene ricordato che non ha niente di meglio da fare, quaggiù, che lanciarsi nell’unica avventura che valga la pena di affrontare?
In sostanza, non vogliamo essere disturbati. Vorremmo che la santità comportasse una situazione più semplice e meno faticosa. È così da sempre. Ma torniamo all’enigma contemporaneo: che senso ha, nel XXI secolo, appartenere alla Chiesa se lo facciamo solo in cerca di una famigliola accogliente o per appartenenza, per ostinazione? A che serve appartenere a quella Chiesa se non vogliamo essere cristiani? E la cosa peggiore, la più intollerabile, è la finta umiltà con cui quei dimissionari dalla santità (cioè i dimissionari dal cristia-nesimo) affermano: « Non sono un santo». Certo, è così. Ma queste parole, che dovrebbero contenere l’ardente desiderio di diventarlo, molto spesso sono invece il lamento ipocrita, tiepido e fiacco, di quella nostra depressione, tutta moderna, che preferisce la tristezza alla lotta, la mediocrità al coraggio, l’imborghesimento allo slancio magnanimo del cavaliere errante. «Non c’è che una tristezza: quella di non essere santi», diceva cent’anni fa Léon Bloy, che non aveva in mente di accomodarsi in poltrona. Eppure nel cuore stesso del cristianesimo occidentale si è diffusa una tristezza ancora maggiore, quella di non voler essere santi. È una realtà che fa cadere le braccia. Il catechismo è stato un grande fallimento.
Certo, le eccezioni ci sono. Esistono uomini e donne che continuano a illuminarci con un’abnegazione gioiosa, una fede e una generosità soprannaturali. Ma non guariremo questo cristianesimo se non ammettiamo che quella santità che ci fa paura dev’essere rimessa al centro della nostra vita, cioè delle nostre azioni e dei nostri desideri.
All’inizio di ogni messa un cristiano sarebbe tenuto a guardare in faccia la realtà. Senza giri di parole, senza scuse, proclamiamo ad alta voce di aver peccato in pensieri, parole, opere e omissioni. Non ci pentiamo collettivamente, non chiediamo perdono per conto del nostro vicino o del nostro nonno buonanima, ma ognuno riconosce di aver fatto personalmente qualcosa di male. «Se diciamo di non aver peccato, facciamo di lui [Gesù Cristo] un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,10). È questa l’ottica cristiana, l’unica che permetta di veder chiaro.
Ovviamente è la fede nella salvezza a permetterci di accettare che abbiamo peccato, che pecchiamo e che corriamo il rischio prossimo di peccare ancora. È la luce della risurrezione, e solo quella, a consentirci di resistere al buio attorno a noi e all’ingiustizia del nostro cuore, a farci credere che non saranno loro ad avere l’ultima parola.
Nel suo linguaggio intenso, spumeggiante e divertente, così diverso da quello dei testi rassicuranti di cui sono affollate le biblioteche cattoliche, la giovane signora O’Connor ha mostrato il volto violento e bizzarro di un mondo in cui solo l’amore riesce a far filtrare un po’ di luce. Cattolica fino alla punta della piuma di pavone con cui scriveva storie brutali come lo è la realtà, non si è comunque mai tolta gli spessi occhiali della fede: «Io scrivo dal punto di vista dell’ortodossia cristiana. Per me ciò significa che il senso della vita è la nostra redenzione realizzata da Cristo e il mondo, per come lo vedo, si ordina in questa prospettiva». Se il senso della vita è la redenzione, non siamo messi tanto bene. I libri di Flannery O’Connor ritraggono sia ciò che lei ha visto del mondo sia il campo di battaglia del suo cuore. È questo che vede il cristiano. Non c’è nulla di meno cristiano del vuoto ottimismo e delle fesserie a base di “buoni sentimenti” che fanno scappare a gambe levate qualsiasi persona razionale. Insomma, il punto è questo: se noi che ci diciamo cristiani a volte siamo tentati di fuggire dalla realtà, convincendoci di essere gli ultimi giusti, sia che ciò avvenga per riflesso identitario di una falsa purezza (a destra), sia che sia dovuto piuttosto alla tentazione del lassismo derivante da una falsa misericordia (a sinistra), c’è comunque da scommettere che solo ed esclusivamente nella realtà più concreta potremo pretendere di accedere al cristianesimo dei santi, che poi è il cristianesimo di Cristo