La Stampa, 14 maggio 2023
Giovani sempre più depressi
Hikikomori. È il termine giapponese per gli adolescenti che rifiutano il mondo e si rinchiudono nella propria stanza. In italiano si dice «ritiro sociale prolungato», un’espressione assai meno fascinosa ma forse è meglio così. L’incubo della psichiatria è ancora l’effetto Werther, chiamato così dall’epidemia dei suicidi che seguì la pubblicazione del romanzo di Goethe. Se infatti la diminuzione dello stigma sociale legato al disagio mentale, soprattutto dei minori, è una conquista, dall’altra il pericolo è sempre quello di trasformare il dolore in un modello da imitare, una moda. Ai ragazzi e le ragazze deve essere chiaro quanto è dannoso confondere la diagnosi con l’identità, quanto questo ostacoli la guarigione, o peggio ancora la faccia apparire poco attraente. Sono a Roma, in via dei Sabelli, nel famoso reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I, quello del film di Francesca Archibugi, “Il grande cocomero”. Fondato da Giovanni Bollea e animato a lungo da Marco Lombardo Radice. Pensatore geniale, medico, scrittore (autore di “Porci con le ali” insieme a Lidia Ravera), morto a quarant’anni: era la meglio gioventù. Si festeggiano in questi giorni i cinquant’anni della legge Basaglia, che servì a chiudere i manicomi e cambiò per sempre la psichiatria. È bene ricordarlo e non abbassare la guardia dal momento che c’è nell’aria una celeste nostalgia per tutto, persino le idee più spaventose.
Nel reparto ci sono i poster dei Peanuts, un’atmosfera strampalata da Giovane Holden, medici e infermieri abitati da quella dedizione allegra e sincera al proprio mestiere/vocazione che era il marchio di fabbrica di Lombardo Radice. Federica di Santo, neuropsichiatria infantile e Emanuela Carletti, coordinatrice infermieristica, mi accompagnano nel giro e mi mostrano le stanze dove dormono i pazienti, ognuna delle quali ha una parete su cui si può scrivere e dipingere. Qua dentro le pazienti sono quasi tutte donne. C’è un calcio balilla, la piscina, un cortile. Ci sono insegnanti (oggi la lezione di francese si fa su “Formidable” la canzone di Stromae) e volontari. C’è persino tutto il materiale per togliere e mettere lo smalto, attività molto amata dalle ragazzine. I bagni sono chiusi a chiave e il telefonino si può usare solo un paio d’ore al giorno. La sera si chiacchiera sulle scale, prima di andare a dormire, tutti insieme. È qui che a volte si ascoltano le cose più sincere, mi dice la dottoressa Di Santo.
Tra le cose che ho imparato da quando ho iniziato questo viaggio nel disagio mentale dei bambini e adolescenti è che le malattie sono divise per genere. E che c’è un’enorme sproporzione nell’incidenza «Su 16 posti letti, 15 sono occupati da ragazze con disturbi alimentari, autolesionismo, tentato suicidio, e raramente qualche episodio psicotico» mi racconta il prof Ignazio Ardizzone, neuropsichiatria infantile che ha lavorato a lungo in questo reparto. Difficile capire da cosa dipenda.
Anche al prof Mauro Ferrara, responsabile di una delle due unità operative del dipartimento di pediatria e neuropsichiatria infantile del Policlinico ho chiesto perché le ragazze paghino un prezzo più alto in questa crisi «Mai avrei immaginato, trent’anni fa, di trovarmi davanti tante adolescenti in un periodo storico in cui si annunciava una maggiore presenza, una maggiore identità di ruolo. Un dato storico-medico è che, nella fascia adolescenziale i disturbi dell’umore, depressione, sono sempre più frequenti nelle ragazze. Andando avanti nell’età si pareggiano i conti.
Ma la differenziazione secondo me è data dal fatto che c’è una fascia di vulnerabilità sociale, e soprattutto vulnerabilità legata al giudizio, al corpo, all’estetica in cui tante ragazze che forse, in altre epoche, avrebbero vissuto un disagio, una fase negativa, un malumore, una difficoltà, invece adesso arrivano a segnalarlo».
«C’è un altro problema» continua il professor Ardizzone, «le ragazze si trovano meglio qui che a casa o fuori. Ci sono state delle ragazze che hanno messo il reparto su TikTok e Instagram, facendo pubblicità, incitando le altre a venire qui in reparto. È una cosa terribile. Per i malati psichiatrici la libertà è ansiogena, ma ancora più grave è l’identificazione con la malattia. Il loro riconoscimento avviene attraverso la patologia, la diagnosi. Le cure possono anche funzionare, e funzionano, però, ma ci vogliano anni di lavoro molto intenso sulla ragazza, sulla famiglia, sulle strutture. Che consiste soprattutto nel disidentificarle. Abbiamo quasi il 90% di ricadute, perché queste ragazze tornano nel mondo e senza la loro malattia non si riconoscono più. Tra le pochissime patologie che riguardano quasi esclusivamente i maschi c’è invece l’hikikomori, o ritiro sociale prolungato. Di cui il professor Ardizzone si occupa da molti anni, tanti da potermi fornire una cifra impressionante: negli ultimi dieci anni questa patologia è aumentata di circa il 70%. «In Italia – dice – attualmente ne soffrono tra i 70 e gli 80 mila ragazzi. Ma la cosa che colpisce è che la linea d’ombra si è spostata. Eravamo abituati a considerare il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori come il momento nel quale il bambino prendeva coscienza dell’idea dell’altro. Si confrontava, nel bene e nel male, con il mondo, costruendo attraverso questo confronto la sua identità.
Adesso quel passaggio è stato anticipato. Così l’angoscia, le crisi d’ansia, l’autolesionismo, le crisi depressive iniziano molto prima, più o meno dai nove anni. Questo significa che gli insegnanti delle scuole medie si trovano di fronte bambini per le cui esigenze non sono stati formati, precoci e precocemente afflitti da disturbi del comportamento. «Le scuole medie – dice il professor Ardizzone – sono dunque la nuova frontiera». Perché si è spostata l’età, chiedo. «Perché il contatto con l’altro avviene prima. L’altro che ti giudica, che ti fa vergognare e arrabbiare e nei confronti del quale puoi provare invidia. Ci si accorge prima di quello sguardo che provoca vergogna. “L’inferno sono gli altri”, diceva Sartre, ed è vero. Un inferno che si presenta sempre prima nella vita di questi ragazzi».
Crescere significa affrontare l’altro, e questo scatena quelli che il dottor Ardizzone chiama «i tre cavalieri del narcisismo» (ben pasciuti in una società come la nostra che del narcisismo ha fatto la sua bandiera): invidia, vergogna e rabbia. «La vergogna è per sua natura riconoscimento, non ci si vergogna da soli ma nello sguardo dell’altro. Ma la vergogna è anche un passaggio cruciale nel processo di crescita, a patto che non si trasformi in senso di colpa, che non si blocchi. Sviluppando quella che ho definito “noosfobia”, la fobia della mente dell’altro, delle sue emozioni, delle sue intenzioni, dei suoi movimenti.
La noosfobia insegna modalità e tecniche difensive per tenere a distanza la mente dell’altro e per proteggere il sé in modo autarchico, indipendente e autogestito. Inizia con la noosfobia l’evoluzione folle dei processi di socializzazione, la separazione tra linea di sviluppo narcisistico e oggettuale che nei casi più gravi porterà alla scomparsa del fascino della relazione con l’altro e la fuga verso il non umano».
L’hikikomori è dunque generalmente un maschio, intelligente, capace di argomentare, terrorizzato dagli altri (dall’osservazione degli altri su di lui) e ossessionato dal controllo. Tutto ciò che non riesce a controllare non ha diritto di accesso, rimane fuori dalla sua porta. Gli altri, ma anche il tempo. Questi ragazzi rifiutano l’idea di un tempo evolutivo e si organizzano un tempo circolare, fittizio, dove niente accade. Un tempo immobile, fatto di ritualità. Un eterno presente, il kairos, segnato da una inesorabile coazione a ripetere.
La ragione per cui non si lavano, o non si tagliano le unghie o i capelli (come il Pierino Porcospino della omonima fiaba di Heinrich Hoffmann, che era un infatti un medico psichiatra) è che non intendono creare condizioni perché qualcosa accada: i capelli e le unghie ricrescano, il corpo si sporchi di nuovo. Oltre al fatto che rifiutano una relazione reale col loro corpo. Chiusi nelle loro stanze, non fanno sport, non si muovono e mangiano in maniera selettiva, spesso cibo spazzatura. Si deformano e rifiutano qualsiasi accesso alla sessualità. Gli chiedo come sia possibile che riescano a eludere la bomba della pubertà. «Carlo, il mio primo paziente – racconta Ardizzone – aveva 14 anni e quando l’ho incontrato era chiuso in casa da tre anni. Particolarmente intelligente e acuto, forse stanco di una situazione che appariva in stallo decise di darmi un suggerimento e preso un vocabolario che giaceva tra i libri della mia biblioteca mi disse: adesso leggiti il termine “annichilire” e forse capirai qualcosa di me e qualcosa di quello che ho provato nel passato. Annichilire va oltre, il giudizio, la vergogna e l’umiliazione ha a che fare con la passivizzazione, la distruzione e con la morte in questo caso psichica e sociale. Un’azione malvagia che se da una parte presuppone un distruttore fuori da sé, dall’altra, in questo caso, presupponeva che Carlo fosse contemporaneamente l’annichilatore di se stesso».
Annichilirsi, cancellarsi, reprimere qualsiasi forma vitale, gli hikikomori hanno una passione per culture e società fortemente ritualizzate. Non si sentono malati, trattano il loro disturbo come una scelta esistenziale. Il loro obiettivo è trasformare l’esistenza in una cerimonia della quale sono gli unici officianti, cibo, sonno, studio sono organizzati secondo regole che loro stabiliscono, immutabili e diverse da quelle di tutti. Sono collegati alla rete costantemente, sono immersi nel cyber-spazio, nel mondo virtuale dei giochi di ruolo. «Dove, parafrasando Walter Benjamin e Mario Perniola, impera il sex appeal dell’inorganico. E sparisce il fascino della relazione reale e vitale con l’altro». Mi spiega il significato del termine «reificazione», citando un saggio di Axel Honneth, filosofo sociale. «Reificazione significa smettere di trattare l’altro come una persona per trasformarlo in un oggetto. Le persone diventano merci, cose. E questo provoca un oblio del riconoscimento».
Che succede quando questi ragazzi arrivano a diciott’anni ed escono dalla vostra giurisdizione? «La questione ancora più importante è che succede quando rimangono da soli. Problema che loro non si pongono, ma che i genitori e noi medici dobbiamo porci, anche rispetto alle cure. Ho seguito per anni un ragazzo di 21 anni che, all’età di 14 anni, è stato portato a Roma dalla Basilicata. È stato ricoverato, poi è stato dimesso. Adesso gli ho fatto mettere un amministratore di sostegno. Lui ora non sta malaccio, ma ancora non esce quasi mai. Sua madre è morta dopo aver convissuto a lungo con una malattia cronica. Disegna benissimo ed è molto intelligente. Adesso ha un rapporto affettivo con una ragazza che vive dall’altra parte del mondo. Si sono conosciuti online».
Alla domanda su chi arriva al Pronto Soccorso il professor Ferrari mi dà un risposta sorprendente: «Non sono tanto quelli che hanno bevuto o assunto sostanze. Qualche anno fa temevamo che sarebbero cresciuti di più. Invece sono soprattutto pensieri suicidari. È una massa così grande che oscura anche le altre cose. Ogni giorno arrivano 5 tentativi di suicidio di bambini e adolescenti. Tanti, tantissimi, troppi». —