la Repubblica, 14 maggio 2023
Intervista ad Angelo Branduardi
Coltissimo, come le sue canzoni che vengono da filastrocche medievali, poesie, libri epperò non annoiano, anzi hanno il profumo buono di certe cose vecchie. Il violino. Un carattere deciso e mite, senza sovrastrutture.
La voglia di guardare avanti anche superati i 70 anni, senza cullarsi sui soldi certi dei diritti d’autore. Se non ci fosse, Angelo Branduardi bisognerebbe inventarlo. Ma c’è, per fortuna. e basta parlargli e dare la stura ai ricordi, però precisando: «Niente bilanci di vita, li farò solo quando dirigerò Tristano e Isotta».
Ah, si dà alla lirica?
«No, è per dire che non li farò mai».
Ci resta la curiosità di immaginare un suo Wagner. Almeno ci faccia immaginare il bambino Branduardi.
«Sono nato a Cuggiono, campagna milanese, nella fattoria di mia nonna materna. Ma a tre mesi ero già a Genova, nei vicoli eternati da De André, zeppi di personaggi bizzarri e irregolari. Per farmi studiare musica, papà mi portò da un maestro di violino, Augusto Silvestri, che mi cambiò la vita aprendomi una magica scatola con uno strumento lucente, profumato di legno.
Un’agnizione. Capii che avrei fatto il musicista da grande».
Lo fece non prima di aver conosciuto un’altra categoria di persone, i poeti.
«Su tutti Franco Fortini, mio insegnante alla Statale. Andavo a trovarlo e lui mi apriva dei mondi con letture e spiegazioni. Un pomeriggio arrivò Pasolini: mi colpi per il tormento interiore e la bellezza delle sue liriche in friulano».
Di poesia in poesia, lei hamusicato Esenin e Yeats.
«Esenin era un poeta contadino, come me. E i suoi versi erano strepitosi. Quanto a Yeats, sono stato l’unico ad avere il permesso del figlio Michael. Prima aveva detto no a tutti, compreso Val Morrison».
Il disco dopo Esenin è vagamente ricordato tuttora per una certa canzone. Ne vuole parlare? tanti cantanti hanno amore-odio verso la loro canzone più celebre.
«Non scherzi. Mille e mille e mille vorrei averne scritte, diAlla fiera dell’Est !È il mio grano di immortalità: nessun bambino sa come mi chiamo, ma se gli dici del cane che morse il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò sa tutto e la canta. Sarei felicissimo se venissi identificato solo con questa canzone. Il bello è che puntavamo sul Lato A,Il dono del cervo,che non era per nulla male.Alla fiera dell’Est non piaceva ed era troppo lunga per le radio. Mi salvò la tv: mi invitarono, la cantai e fu una valanga».
All’epoca dei bambini dovettero farsi ricomprare il disco: lo avevano logorato a furia di ascolti. Non silogorò l’amore dell’Italia per lei: in seguito fece altri colpi tra pulci d’acqua e prime mele da cogliere.
Pian piano però il successo l’ha perso. Le è restata la notorietà.
«Ma io sono un artista di nicchia che ogni tanto incontra il mainstream, se non capita è lo stesso. Sarei durato di più scrivendo pop e andando a Sanremo. Ma non sarei stato me stesso. E non sono finito né pensionando. I teatri li riempiosempre. Sono appena tornato da un tour europeo con il mio ultimo lavoroIl cammino dell’anima, su Ildegarda di Bingen, mistica medievale tedesca, scienziata, filosofa, drammaturga, scrittrice, pittrice e musicista. Il pubblico era entusiasta ovunque».
Però all’estero i cantanti italiani sono belle voci pop. Lei che c’entra?
«Mi considerano profondamente un italiano del Rinascimento. Giocherà anche l’aspetto fisico, coltivato soloper esprimere la mia personalità, non per creare un personaggio: sono una persona e un artista, è ben diverso».
Ma è vero che all’Olimpia di Parigi le tiravano le rose?
«Tirano oggetti per manifestare entusiasmo. Ma il bello fu in Belgio: a Bruxelles mi lanciarono di tutto e io mi lamentai che non mi arrivava mai un reggiseno. Il giorno dopo a Liegi me lo tirarono davvero: non usato, aveva ancora il cartellino del prezzo».
Insuccessi?
«Come tutti. Penso all’idea di andare al festival “Re nudo” a Parco Lambro di Milano, metà anni 70. Io e Maurizio Fabrizio suonammo Confessioni di un malandrino. Fine del brano: niente, l’indifferenza. La risuonammo: lo stesso. Pensavano ad altro, lì».
Lei fu il primo a vedere uno scrittore in Giorgio Faletti.
«Ne coglievo un lato poetico. Lo esortai a comporre testi di canzoni e facemmo due dischi. Quando scrisseIo uccidomi raccontò la trama per due ore e mezzo a tavola, svelandomi anche il colpevole. E non lo lessi. Da allora fu così per ogni romanzo: cena, spoiler, mancata lettura, successo».
Lei è un’icona, e come tutte le icone può essere parodiata.
«E io ringrazio: è un omaggio, un segno di considerazione, e spesso c’è uno studio, una riflessione. La cosa migliore èLo gnegno di quel genio di David Riondino, ma anche Lo struzzo e lo gnomo di Stefano Bollani, eAlla fiera della casa di Tony Tammaro. Lo gnegno l’ho cantata con Riondino addirittura sul palco del Club Tenco».