la Repubblica, 14 maggio 2023
La nuova vita di Bari
Fino a una ventina di anni fa, se facevi conoscenza con qualcuno in giro per l’Italia o per il mondo e dicevi di venire da Bari ti sentivi rispondere, quasi sempre, con una delle frasi che seguono. 1) Bari, ci sono passato per andare in Grecia. 2) È vero che Bari Vecchia è così pericolosa?
In effetti, salvo rare, eccentriche eccezioni, nessuno veniva a Bari per visitare Bari e infatti, appunto, i turisti ci passavano solo per prendere il traghetto che li avrebbe portati in Grecia. E sì, la Città Vecchia era davvero pericolosa. Entrarci senza cautele implicava il rischio altissimo – diciamo pure: la quasi certezza – di essere aggredito, scippato, rapinato. Le vie di accesso erano presidiate da ragazzini che registravano l’arrivo di forestieri (nella categoria rientravano anche gli abitanti della città nuova) e procedevano nel giro di pochi minuti all’aggressione. A dire il vero gli ingressi di Bari Vecchia erano presidiati anche da anziane signore che suggerivano di non entrare o, se proprio non se ne poteva fare a meno, di togliersi di dosso ogni oggetto di valore. C’era chi dava loro retta e usciva indenne dall’esplorazione. C’era chi considerava folcloristici quegli avvertimenti e, quasi immancabilmente, poco dopo si ritrovava in questura a fare denuncia se andava bene; o al pronto soccorso se andava meno bene.
Gli scippi sono praticamente cessati, sia a Bari Vecchia sia nelle altre parti della città, quando Procura e Polizia decisero di affrontare il fenomeno in modo strategico. Decine di scippatori furono arrestati dopo un’indagine ben fatta; a differenza del passato rimasero detenuti per periodi non irrisori; nel frattempo la Città Vecchia veniva risanata, conosceva una gentrificazione senza precedenti, si popolava di locali di ogni genere. Inutile dire che il fenomeno non ha solo connotati positivi ma la questione, per quello che ci interessa, è un’altra. Bari cessava di essere la capitale nazionale degli scippi e, dopo qualche tempo, cominciava a conoscere un fenomeno inedito: viaggiatori che venivano in città per visitarla e non solo per proseguire alla volta delle isole greche.
Ce ne sono tanti adesso e certamente faticano a immaginare che quella città vecchia bellissima, pulita e sicura fosse un posto così tangibilmente pericoloso. Faticano a immaginare, più in generale, come fosse questa città nel passato.
Era innanzitutto un posto dai confini invisibili ma nitidi e ben chiari a tutti. In certi posti, in certi quartieri ci potevi stare, in altri conveniva non andarci. E se lo facevi, dovevi accettare il rischio.
Io sono cresciuto su una di queste linee di confine: l’ultimo isolato di via Putignani, a cinquanta metri da via Manzoni, letteralmente in bilico fra due mondi. Via Putignani è una delle vie simbolo della città borghese, moderna e ricca. Parte da Corso Cavour con il Teatro Petruzzelli, passa davanti al Palazzo Mincuzzi, filologicamente realizzato a imitazione delle Galeries Lafayette, e arriva, dopo un chilometro esatto di oleandri, su via Manzoni e Piazza Risorgimento, con l’Edificio Scolastico Garibaldi, fabbricato dall’aria vagamente coloniale dove Zeffirelli girò il film sul giovane Toscanini.
Via Manzoni segna il confine fra il quartiere Libertà e il quartiere Murat.
Il nome viene da Gioacchino Murat, seminarista fallito, locandiere, soldato semplice, ufficiale rivoluzionario, generale napoleonico, maresciallo di Francia, re di Napoli per grazia di Napoleone Bonaparte. Fra le cose che fece nei suoi pochi anni di regno, prima di venire fucilato alla fine dell’avventura napoleonica, ci fu la promulgazione del decreto di costruzione del “borgo nuovo” di Bari in una zona pianeggiante a sud del vecchio centro storico. Il “borgo nuovo” era costituito da edifici obbligatoriamente muniti di giardini e agrumeti al loro interno, in una struttura urbanistica con la conformazione del castrum romano, isolati regolari a forma di rettangolo. Una delle più grandi rivoluzioni urbanistiche nell’Europa del diciannovesimo secolo. Sulla conformazione della città murattiana una volta ho letto una cosa che mi è piaciuta molto. L’ha scritta un francese – Paul Bourget – nel 1891, e rende l’idea. «La trovo attraente questa città nuova, con le sue vie larghe ad angoli retti, che consentono di vedere sempre in fondo ad esse il mare, come a Torino si vedono le Alpi».
Oggi in fondo alle vie non si vede più il mare, perché dal 1891 nuovi quartieri sono nati e cresciuti attorno al quadrilatero originario e, dopo il sacco edilizio degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, di quegli edifici bellissimi, di quei giardini profumati di arance e limoni ne sono rimasti ben pochi. Però di notte, il pomeriggio della domenica o in certi giorni di festa, quando non c’è traffico e le strade sono sgombre, si può ancora provare quella sensazione rettilinea di itinerari prevedibili e di svolte rassicuranti cui alludeva lo scrittore francese. E paradossalmente è proprio in quei momenti che balena l’intuizione, ambigua e vertiginosa, di essere su instabili punti di fuga, diretti verso posti lontani.
Il quartiere Libertà invece fu realizzato nella prima metà del ventesimo secolo a partire dal margine occidentale della città, e si sviluppò come quartiere proletario. Oggi ci abitano 40.000 persone (molte di più se includiamo gli immigrati più o meno regolari) ed è un’area a metà strada fra gentrificazione e degrado.
Ai tempi della mia adolescenza era un territorio pericoloso per noi ragazzini del Murat. Noi stavamo dal lato delle famiglie borghesi, delle case confortevoli, dei teatri, delle librerie, dei negozi eleganti. Dall’altra parte del confine c’era una moltitudine popolare chiassosa, che noi percepivamo aggressiva. C’erano case dagli androni bui e maleodoranti, spacci in cui uomini come orchi menavano la birra (antico passatempo popolare e quasi tribale), bassi dai quali veniva odore di cibo cucinato un po’ rancido e varechina, contrabbandieri, circoli ricreativi con biliardi, flipper e stanze segrete, nel retro, dove si giocava d’azzardo. C’erano negozi che venivano dal passato remoto; fra questi, alcune drogherie che vendevano ogni sorta di merci strane e negozi di giocattoli e dolciumi affogati nell’odore di plastica, liquirizia, zucchero e caramelle. Dalle case si sentivano, ad alto volume, canzoni napoletane o l’inconfondibile sound melodico degli anni Settanta.
Da quella parte stavano i ragazzi che vivevano per strada. In un mondo diverso dal nostro, fatto di oggetti concreti, di odori intensi, di voci forti e gutturali. Parlavano una lingua straniera e minacciosa che noi figli di mammina – così ci chiamavano con tono pieno di disprezzo – capivamo senza però saperla parlare.
Nella Bari del passato c’era il più grande bazar di spaccio dell’Italia meridionale. Era il rione Japigia (che ovviamente esiste ancora, ha ancora diversi problemi ma non è più quella roba lì) e ci venivano a comprare eroina e cocaina da ogni parte della regione, e anche da fuori. A tutti gli ingressi del quartiere c’erano le vedette con le radiotrasmittenti per informare gli spacciatori dell’arrivo delle forze di polizia. Che erano costrette a muoversi nel quartiere come truppe dietro le linee nemiche di un territorio straniero.
Nella Bari del passato c’era il rione San Girolamo dove la notte, a pochi metri dalla strada, i contrabbandieri scaricavano indisturbati quintali e quintali di sigarette. A volte sotto gli sguardi stupefatti di qualche coppietta che era andata ad appartarsi proprio da quelle parti. Oggi a San Girolamo c’è uno spettacolare lungomare nuovo di zecca con chilometri di spiagge, giardini, piste ciclabili, macchia mediterranea. La gente ci va a fare il bagno, a passeggiare, correre, passare al fresco le sere d’estate. Tutto è tranquillo e leggermente surreale.
Non tutto è cambiato, però. Ci sono spazi della città che sembrano drammaticamente simili a sé stessi. Primo fra tutti il rione San Paolo, collocato a una decina di chilometri dal centro della città, abitato da oltre trentamila persone, governato per decenni da clan mafiosi tanto rozzi quanto spietati, teatro per decenni di sanguinose guerre criminali.
La stragrande maggioranza dei baresi non ci è mai stata. Nessuna buona ragione per andarci, molte buone ragioni per starne alla larga. Nessuno vi avrebbe suggerito di visitarlo, nulla di più distante dagli itinerari dei numerosi turisti che adesso vengono numerosi a Bari (e non per proseguire verso la Grecia). Questi itinerari includono San Nicola e la Cattedrale (due esempi di romanico senza uguali); lo spettacolare lungomare con i suoi lampioni di ghisa; l’incredibile passeggiata sulle antiche mura della città dove, in certi deserti pomeriggi di autunno si vien presi dalla macchina del tempo e trasportati in un passato indefinibile e fiabesco. Vengono a vedere il Petruzzelli, bello (quasi) come prima dell’incendio e della ricostruzione. Ovviamente vengono a perdersi fra i vicoli della città vecchia, oggi fra i posti più sicuri (anche se non più tranquilli) d’Italia a mangiare nelle vecchie osterie e nei nuovi ristoranti, a provare i panzerotti, a comprare le orecchiette fatte per strada dalle signore del posto. Vengono a visitare il castello Normanno-Svevo-Angioino, quello che (secondo Guido Piovene ma anche secondo me) più di ogni altro in Italia è adatto per l’ambientazione di un film di cappa e spada. Eccetera.
Il mio consiglio però è di fare anche una passeggiata – occorre l’auto, ma andranno bene anche l’autobus o la metropolitana – nel suddetto, famigerato San Paolo. Ci troverete un sorprendente museo a cielo aperto e un messaggio materiale di fantasia, speranza e civiltà.
Tutto comincia con la realizzazione al Quartiere (così lo chiamano gli abitanti) di un grande murale con l’immagine di San Nicola, nel 2019. Durante il lockdown, annullate tutte le manifestazioni religiose che normalmente si tengono a Bari dal 6 all’8 maggio per la festa del Santo Patrono, quel murale viene illuminato a cura dell’associazione culturale Cellule Creative e diventa luogo di culto alternativo al tempo dell’epidemia.
Sullo slancio di questo evento l’Associazione Mecenate 90 elabora un progetto di rigenerazione urbana consistente nel trasformare un certo numero di palazzine del quartiere in opere d’arte a cielo aperto. Comune e Regione finanziano, Cellule Creative si occupa della parte operativa e cantieristica. Eh sì, perché come raccontano Stefano Straziota (laureato in legge pentito, creatore di oggetti, animatore di una galleria d’arte e design vintage) e Carlo Alberto Amodio (ingegnere, ma soprattutto appassionato e promotore di arte contemporanea), realizzare un murale delle dimensioni di un edificio di sei piani non è soltanto lavoro di pittura, nelle sue varie forme. «Abbiamo seguito il lavoro dei dieci artisti selezionati per la realizzazione delle opere di arte muraria dal principio alla fine. Giorno e notte. Letteralmente, perché qualcuno di loro voleva lavorare solo alla luce dei riflettori».
Non ci sono stati problemi a lavorare in un quartiere difficile come il San Paolo?.
«Questo è stato l’aspetto più incredibile e inatteso. Abbiamo ricevuto una collaborazione sorprendente e anche emozionante da parte degli abitanti del quartiere. Fra l’altro per la realizzazione delle opere, ogni artista ha presentato il proprio bozzetto ai condòmini dell’edificio assegnato. C’è stato un confronto sui contenuti e si può dire, senza retorica, che il risultato finale appartenga in egual misura agli artisti e agli abitanti dei condomini. Viene da dire che gli artisti sono diventati gli interpreti di desideri di bellezza per troppo tempo repressi».
Ma i gruppi criminali che ancora ci sono nel quartiere non erano infastiditi dalla vostra presenza?
«Nessuno ci ha disturbato. Anzi alcuni soggetti che, ci è stato detto anche dalla polizia, avevano avuto problemi anche seri con la giustizia, si sono affezionati, passavano del tempo con noi, soprattutto durante i lavori notturni. Come a voler proteggere il progetto e chi ci lavorava».
Non vi hanno chiesto niente?
«Niente. La cosa più bella è stato il senso di orgoglio che si percepiva fra i cittadini. L’idea che questa cosa appartenesse alla comunità. Ognuno voleva dare una mano. Tanto per fare un esempio: c’erano alcune signore che preparavano la pasta al forno, il ragù, la parmigiana; le portavano agli artisti e alle maestranze e si mangiava tutti insieme».
Ovviamente esponenti dell’intellighenzia culturale barese ed esperti d’arte hanno avuto da ridire sull’operazione. Le opere progettate non erano veramente arte (qualunque cosa significhi una frase del genere); gli abitanti del quartiere ne avrebbero reso impossibile la realizzazione (sul punto: vedi sopra); ammesso che le opere fossero state ultimate, in breve bande di teppisti le avrebbero deturpate e vandalizzate.
Il museo di arte muraria all’aria aperta del Quartiere San Paolo però è lì a dimostrare che i membri dell’intellighenzia e gli esperti non sono bravi a fare le previsioni. Tutte le opere sono interessanti, alcune davvero molto belle e nessuno le ha deturpate.
E magari c’è anche una lezione, in tutto questo.