La Stampa, 14 maggio 2023
Da "Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia" di Luigi Manconi e Gaetano Lettieri (il Saggiatore)
La pubblicistica italiana contemporanea torna frequentemente l’evocazione di una poesia scritta da Pier Paolo Pasolini oltre cinquant’anni fa, Il Pci ai giovani!!. (...) A dar retta alla versione pressoché unanime, in quella poesia Pasolini avrebbe preso le parti dei poliziotti, in odio agli studenti contestatori, secondo una grossolana distinzione tra i primi (proletari e sottoproletari, «figli dei poveri») e i secondi (borghesi e piccoloborghesi, «figli di papà»). Fu lo stesso Pasolini a chiarire: «Nessuno si è accorto» che i versi iniziali erano «solo una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore su ciò che veniva dopo dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio». Le caserme dei poliziotti erano dunque considerate come «ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo: e tutti si sono soffermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica». Dunque, secondo Pasolini, il senso di Il Pci ai giovani!! sarebbe stato ribaltato da letture ideologicamente interessate. Ma il tema vero e la sostanza poetica e politica consistevano nell’affermazione che «il potere ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti». Eppure, nonostante l’interpretazione offerta dal suo stesso autore, quei versi sono stati ridotti alla falsa rappresentazione di un conflitto insuperabile tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista, che si riconosceva nella contestazione, da una parte; e il proletariato e il sottoproletariato, identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere, dall’altra. E la lettura «autentica», proposta per primo dal regista Davide Ferrario, è stata costantemente ignorata a favore dell’interpretazione «paradossale», secondo la definizione dello stesso poeta.
Un ulteriore episodio, pressoché sconosciuto, che aiuta a comprendere meglio quale fosse il reale pensiero di Pasolini, è costituito dal ruolo da lui avuto nella realizzazione del film 12 dicembre. (...) Pasolini viene indicato, nei titoli di testa, come autore dell’idea da cui è tratto il film, firmato come regista e produttore dal militante di Lotta continua Giovanni Bonfanti, su sceneggiatura dello stesso Bonfanti e di Goffredo Fofi. In realtà, la partecipazione di Pasolini a questo progetto, promosso da Lotta continua, fu ben più importante. (...) «Ci ho lavorato, l’ho montato io, ho scelto io le interviste ho girato circa un sessanta per cento, ma l’ho montato tutto io. Però - e questo è il punto - non ci ho messo la mia ideologia. Da una parte ho messo quella che è la realtà, dall’altra ho fatto dire le loro idee a questi di Lotta continua». Il film prende spunto dalla strage di piazza Fontana e dalla morte di Giuseppe Pinelli e si sviluppa, poi, come un vero e proprio «viaggio in Italia» che, partendo da Milano, arriva fino a Reggio Calabria. Il coinvolgimento così intenso di Pasolini nella realizzazione del film e l’esperienza di cooperazione tanto stretta con Lotta continua confermano come le posizioni del poeta - in tutta la loro contraddittorietà e irregolarità - sono nient’affatto lontane da quelle della sinistra extraistituzionale dell’epoca e, in particolare, da quelle di Lotta continua. Tuttavia, non si può ignorare che, per tornare al conflitto Poliziotto-Sessantotto, quella lettura della poesia, anche quando deformata in senso antistudentesco, manteneva un grumo di verità.
In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel 1945 il poeta Umberto Saba: «Gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbia, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo con il parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Per uno scarto della fantasia, la citazione di Saba mi ha portato a immaginare una possibile e tutta personale interpretazione del film di Marco Tullio Giordana La meglio gioventù. Ho pensato, cioè, quel film come interamente costruito intorno alla figura di Matteo, il giovane che diventa poliziotto e che, nella parte conclusiva, si toglie la vita. Questa interpretazione (del tutto arbitraria, ovviamente) mi ha avvicinato maggiormente al film: anche in ragione del riferimento obbligato alla poesia di Pasolini. Come detto, quella maldestra interpretazione «antistudentesca» (e reazionaria, in senso letterale) conteneva, in ogni caso, una formidabile sollecitazione intellettuale, che sarebbe sciocco ignorare. E non perché il movimento degli studenti fosse sociologicamente, o politicamente, borghese o piccoloborghese (antagonista, dunque, dei «Proletari in Divisa»); ma perché quella stessa lacerazione sociale, che attraversava sotterraneamente il movimento studentesco al suo interno, si riproduceva anche nel rapporto tra il movimento studentesco e gli «altri»: i possibili, riottosi alleati (gli operai, gli «sfruttati» tutti) e i certi, aggressivi nemici (i poliziotti, i carabinieri, i fascisti).
Il sovrapporsi di tali fratture (quella destra/sinistra e quella sociale) all’interno della medesima generazione contribuisce a produrre, appunto, una sorta di dinamica fratricida. Di conseguenza, mi viene da ipotizzare che il conflitto sotteso al passaggio rappresentato dal Sessantotto sia stato solo parzialmente un conflitto generazionale: vale a dire una rivolta «contro il padre». Per ragioni storiche complesse - che hanno a che vedere con il «carattere nazionale» e con i tratti peculiari del nostro modello di sviluppo sociale, economico e culturale - quel movimento non è stato in grado di consumare adeguatamente il rito della successione, il «padre» non è stato «mangiato» e la tensione «cannibalica», che presiede a tutte le rivolte, si è indirizzata, piuttosto, contro i «fratelli». Il Sessantotto ha rinnovato, dunque, un’epoca di «guerre fratricide» (si pensi, sullo sfondo e sul piano più strettamente politico e ideologico, all’infinita contesa tra socialisti e comunisti e tra riformisti e massimalisti).
«Guerra fratricida» nel senso che la fase unitaria, di movimento generazionale, è stata breve; ha appena sfiorato i padri, senza sconfiggerli (e, tanto meno, spodestarli): e comunque, quando lo ha fatto, la rottura è avvenuta soprattutto sul piano del costume e degli stili di vita (il che, beninteso, non è affatto poco). Ma, il conflitto, ben presto, si è come ripiegato su se stesso: sia perché ha tardato a individuare oggetti esterni e avversari identificabili, sia perché si è tradotto rapidamente in scontro per l’egemonia tra «fratelli separati» (tra «fascisti» e «comunisti»). Infine, perché quest’ultimo scontro - in particolare, a seguito della strage del 12 dicembre del 1969 - è diventato «guerra» tra «nemici assoluti». E questo ha fatto sì che il trauma di quella strage assumesse (per una parte considerevole di futuri terroristi) la forma irrigidita di un meccanismo autogiustificativo e autolegittimante. Per la grande maggioranza il conflitto finì, in ogni caso, per isterilirsi e per rivelare di avere, come posta in gioco, risorse scarse (mentre era nato in una condizione, vera o illusoria, di risorse affluenti): e, quindi, poco da contendere e da distribuire.