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 2023  maggio 14 Domenica calendario

Biografia di Adriano Galliani

Adriano Galliani, qual è il suo primo ricordo?«Ho sei anni e rubo la Gazzetta dello Sport all’autista di un camion dell’azienda di mia mamma. Ho imparato a leggere sulla Rosea».
Sua mamma aveva un’azienda?
«Trasportava collettame, si diceva così, sulla rotta Brianza-Milano. Suo zio era stato presidente del Monza. Era lei, non mio padre, a portarmi alla partita. Messa in Duomo, panino, stadio. Morì nel 1959, avevo 14 anni. Il giorno dopo papà mi disse: “Adriano, vai pure. La mamma è contenta se vai a tifare per il Monza” (Galliani si commuove).
Papà cosa faceva?
«Segretario comunale. Non aveva conosciuto suo padre: caduto sul Piave. La nonna non si risposò mai, andò a vivere con sua sorella, pure lei aveva perso il marito nella Grande Guerra. Anche mio nonno materno era morto nel 1918, di febbre spagnola».
Una vita dura.
«No. Una vita segnata da una passione: il calcio. Idolo: Alfredo Di Stefano. Nel 1954 ero in vacanza ad Arenzano, scappai di casa per andare in un bar di Genova dove davano la finale dei Mondiali; non mi trovavano più, pensavano fossi annegato. Siccome non sapevo giocare, con i primi soldi divenni comproprietario e dirigente del Monza».
Come fece i primi soldi?
«Aprii uno stabilimento balneare a Vieste, sul Gargano; ma arrivarci in macchina era un’odissea. Divenni socio di un’azienda, Elettronica Industriale, e alla fine la comprai».
Da qui il primo incontro con Berlusconi, di cui lei racconta nel nuovo libro scritto con Luigi Garlando, Memorie di Adriano G.
«Per prima cosa mi chiese come la pensavo».
E lei?
«Risposi la verità: “Mio padre diceva che i comunisti mangiano i bambini, e io mi sono fermato lì”. Berlusconi si alzò, venne verso di me, pensai di aver fatto una gaffe. Invece mi abbraccia e mi fa: anche il mio papà diceva così!».
E le chiese di piazzare i ripetitori delle sue tv.
«Già pensava a tre canali nazionali. Obiettai che non era possibile: per la legge poteva averne solo uno regionale. Fu secco: “Lei faccia il tecnico e mi dica: la sua azienda può realizzare il mio progetto?”».
Poteva.
«Fu il mio periodo eroico. Ho comprato pezzi di colline e di montagne in quattromila comuni. Al Sud sul rogito spesso il venditore scriveva: professione, benestante».
E compraste il Milan.
«Era il Capodanno 1986. Sono in vacanza nella villa del presidente a St. Moritz, con Confalonieri e Dell’Utri. Fa un freddo tremendo, usciamo imbacuccati per andare a prendere l’aperitivo al Palace e incrociamo il clan Agnelli: l’Avvocato con la camicia aperta, Montezemolo con il ciuffo, Jas Gawronski elegantissimo, forse Malagò. Al confronto noi sembravamo Totò e Peppino. Condividiamo il tavolo. Alla fine Berlusconi ci dice: “Potremo fare anche noi grandi cose, ma non saremo mai come loro. Ci mancano venti centimetri di statura e il coraggio di esporre il petto villoso sottozero”. Qualche giorno dopo ci propose di prendere il Milan».
E Berlusconi vi rimise in forma: indimenticata la vostra foto alle Bermuda, tutti vestiti di bianco…
«Sembrava una scena di Momenti di gloria, ma con un altro passo».
Quando lei parla di Berlusconi le brillano gli occhi. Lo sa, vero, che molti lo considerano un simpatico lestofante?
«Non c’è nulla di più lontano dalla realtà dell’immagine che ha dato di lui certa stampa. È come Ezzelino da Romano, passato alla storia come crudele mentre era un grand’uomo. Berlusconi è la persona più buona che ho conosciuto in vita mia. È dolcissimo. Non dimenticherò mai le cose che mi ha detto sulla nostra amicizia prima del suo intervento al cuore; anche se dopo 44 anni non riesco a dargli del tu. Quando rischiai di morire di Covid, in un prefabbricato senza finestre, lui telefonava al San Raffaele ogni giorno per avere mie notizie».
È stato scritto che Confalonieri è il lato bianco del berlusconismo, e Dell’Utri, condannato per mafia, quello nero.
«A parte il fatto che il concorso esterno esiste solo in Italia, Marcello è nato a Palermo, Confalonieri a Milano, io a Monza. La cosa è tutta qui, e non aggiungerò altro. Berlusconi mi ha insegnato a vedere il mondo da un’altra parte. Un giorno di nebbia dovevamo andare a Torino. Uno proponeva il treno, l’altro la macchina, l’altro ancora l’aereo privato. Arrivò Berlusconi e disse: ma noi oggi perché cavolo dobbiamo andare a Torino? Mi ha insegnato mille cose. E sa qual è la più importante?».
Quale?
«L’ho visto salutare il presidente degli Stati Uniti e la persona più umile della terra allo stesso modo, con lo stesso sorriso».
Quando prendeste il Milan salutaste Nils Liedholm.
«Avevamo molto rispetto per il Barone. Ma si doveva cambiare passo. Liedholm era la flemma: in ogni albergo voleva la camera 5 o la 113 o quella il cui numero in totale facesse 5. Sacchi urlava nel sonno, stringeva i pugni, lanciava grida disumane. In campo allenava con il megafono. Alla fine gli olandesi non lo sopportavano più».
Nel libro lei racconta che Sacchi stava per andare alla Fiorentina.
«Lo intercettammo per strada. Quasi impossibile, nell’era pre-telefonini. Accettò di firmare in bianco. Io scrissi 300 milioni, meno di quello che prendeva in B al Parma. Lui pose una condizione: a ogni trofeo me li raddoppiate. L’anno dopo vinse lo scudetto, l’anno dopo ancora la Coppa dei Campioni. Faceva un miliardo e 200 milioni. Che fui felice di pagargli».
Il primo grande acquisto fu Donadoni, sottratto ad Agnelli.
«Berlusconi se ne innamorò durante una partita dell’Under 21. Ma stava all’Atalanta, e da sempre l’Atalanta vendeva i giovani migliori alla Juve. Il presidente invitò a cena per la sera dopo i Bortolotti, padre e figlio. Quando uscirono da Arcore, Donadoni era del Milan».
Lei però rivela a Garlando che Agnelli intervenne per non farvi comprare Baggio.
«Quella volta a Torino andammo in elicottero. Pensavo che ci avrebbero abbattuto. Invece arriviamo a corso Marconi, c’è anche Romiti, e Agnelli ci chiede di rinunciare a Baggio, introduce anche discorsi extracalcistici…».
Quali?
«La fusione tra Rinascente e Standa. Io capisco che Berlusconi ci sta ripensando e intervengo, alzo la voce. Agnelli mi richiama all’ordine: “Si calmi, non faccia così…”. Finì che Baggio andò alla Juve».
Vialli vi disse di no.
«Avevamo l’accordo con Mantovani, andammo a casa sua convinti di chiudere. Invece ci chiese, quasi beffardo: a Milano c’è il mare? Pensai: sei nato a Cremona, mi stai prendendo in giro? Invece sorrisi: a Milano2 abbiamo un laghetto bello come il mare. E lui: peccato, senza mare non riesco a vivere. Credo che in realtà Mantovani ci avesse ripensato. Così prendemmo Marco Van Basten. Il calciatore più forte che abbia mai visto».
Il primo Milan di Berlusconi arrivò all’Arena in elicottero, al suono della Cavalcata delle valchirie. Una roba un po’ da mitomani.
«L’elicottero fu un’idea di Berlusconi; la Cavalcata delle valchirie mia. Ricordavo Apocalypse Now: “Mi piace l’odore del napalm al mattino presto…” E pensare che nella mia vita mi sono dovuto ricredere su molti miti».
Cioè?
«Da bambino all’oratorio vedevo “L’assedio dell’Alcazar”, con il colonnello Moscardò cui i comunisti avevano accecato la moglie e i figli, ma quando il caudillo Franco telefonava per chiedere: novità? rispondeva: no generale, nessuna novità. E poi da grande ho scoperto che i buoni, almeno ufficialmente, erano i comunisti. Da ragazzo vedevo i western con John Wayne che faceva strage di indiani, e ho scoperto che i buoni erano gli indiani. Da giovane facevo il tifo per gli americani in Vietnam, poi ho scoperto le stragi che avevano commesso…».
Nel 1989 vinceste la prima Coppa dei Campioni, contro lo Steaua Bucarest.
«C’erano ancora Ceausescu e il Muro di Berlino. A Bucarest rastrellammo anche i loro biglietti, il Camp Nou era tutto rossonero. Portammo a Barcellona l’intero calcio italiano e mezza politica su un Jumbo. Era un’altra Italia».
Lei ricorda che l’ultimo Pallone d’Oro uscito dalla serie A fu Kakà nel 2007, e teme che non ce ne sarà un altro.
«Spero di sbagliarmi. Abbiamo le due squadre di Milano in semifinale, è un segnale in controtendenza. Ma la Premier fattura quattro volte più della serie A. I rapporti di forza sono troppo sbilanciati».
Un altro colpo di mercato fu Ancelotti.
«Il presidente della Roma Viola mi disse: vada al residence Velabro alle 22, camera 212, e troverà Ancelotti. Il portiere pensò a un appuntamento equivoco. L’accordo c’era, ma quando il medico del Milan vide gli esami disse: c’è un errore, queste non sono le gambe di un calciatore ma di un anziano. Invece erano proprio le ginocchia di Ancelotti. Lo prendemmo lo stesso, e fece ancora stagioni meravigliose».
Tanto correva per tutti Angelo Colombo.
«Ma si separò dalla moglie e prese un filippino. Sacchi gli telefonò e il filippino rispose: il signore non è in casa. Sacchi uscì pazzo: Colombo si è imborghesito, non ha più fame, dobbiamo venderlo subito! Non ci fu verso di fargli cambiare idea».
Van Basten smise a 28 anni.
«I greci dicevano che gli eroi muoiono giovani. L’avevamo scongiurato di non farsi operare, di convivere con il dolore. Purtroppo l’intervento non riuscì. Agnelli mi chiese il permesso di visitarlo in clinica. All’uscita mi chiamò: non credo che questo ragazzo giocherà ancora a calcio. Purtroppo aveva ragione».
Prendeste un grande 10, Boban.
«Andammo al ristorante con il padre, un colonnello croato, Marinko, uomo d’ordine. Avevamo davanti una bottiglia di San Pellegrino, e ogni volta lui la ruotava. Gli chiesi perché. “Perché non sopporto di vedere una stella rossa” rispose».
Arrivarono altre Coppe, ma pure la beffa di Istanbul: il Liverpool vi rimontò tre gol e vi sconfisse ai rigori.
«Davanti a noi c’era un muretto basso, al terzo gol di Crespo stavo per cadere di sotto, mi salvò Erdogan afferrandomi per la giacca».
Berlusconi cosa disse?
«Nulla. Dopo la partita restammo seduti più di mezz’ora in tribuna, senza dirci una parola. Avevamo perso, ma la squadra aveva dato il massimo. Si era arrabbiato molto di più dopo uno 0-0 con il Celta Vigo in cui non avevamo tirato in porta, riempì me e Capello di improperi. Il bel gioco prima di tutto».
È vero che dopo quella sconfitta Gattuso voleva lasciare il Milan?
«Sì. Venne a dirmi: non posso più indossare la maglia rossonera, perché ogni volta mi tornerà il dolore di Istanbul. Così lo chiusi a chiave nella stanza delle coppe. Ogni ora tornavo: hai cambiato idea? No? E richiudevo. A mezzogiorno gli lasciai due panini. Lo presi per sfinimento. Nel pomeriggio mi comunicò che restava. Gli aprii».
Anni dopo prese per sfinimento pure Ibra.
«Mi piazzai nel salotto di casa: non me ne vado finché non firmi. Restai tutto il giorno. La moglie mi guardava come un pazzo: ma questo chi diavolo è? E Ibra: “È Galliani del Milan, dice che non se ne va finché non firmo”. E tu cosa farai? “Credo che firmerò, se no quello non se ne va davvero”».
In mezzo ci fu Calciopoli. Juve in B, al Milan 30 punti di penalizzazione.
«Su Calciopoli volo alto».
Non può cavarsela così.
«Ero presidente di Lega: crede che i presidenti delle altre squadre mi avrebbero eletto, se ci fossero stati brogli e inganni?».
Lei fu interrogato da Borrelli.
«Filò tutto liscio. Poi però la sua collaboratrice Maria José Falcicchia, futura vicequestore di Milano, mi inseguì: “Il dottor Borrelli vorrebbe fargli ancora una domanda”. Tornai indietro e gli feci notare che quella era la tattica di Lavrentij Berija, il ministro degli interni di Stalin».
Com’erano i suoi rapporti con Moggi?
«Buoni, anche se ne avevo di più con il mio omologo, Giraudo. Ma con la Juve non c’era alleanza. C’era convergenza di interessi. Poi sul campo ci si affrontava a viso aperto. Eravamo due squadre fortissime, nel 2003 ci giocammo la Champions».
Vinse il Milan, rigore decisivo di Shevchenko.
«A volte ancora sogno che lo sbaglia».
Lei nel libro racconta di quando andò a vedere Sheva a Kiev, con un freddo terribile e le prostitute che tentavano di entrarle in camera.
«Dormii con il cappotto e con una cassapanca contro la porta. Passai la notte al telefono con la donna di cui ero innamorato».
Chi era?
«Non posso dirglielo».
Se non me lo dice faccio come lei con Ibra.
«Va bene, ma devo farmi autorizzare» (Galliani telefona: «Manuela, posso?»).
Allora?
«Era Manuela Moreno, la giornalista tv. Poi però mi ha lasciato».
Prima di Sheva aveva preso Rui Costa.
«Costava uno sproposito, 85 miliardi, e Berlusconi disse no. Io però ho sempre capito quando Berlusconi dice no e pensa no, quando dice sì e pensa sì, quando dice sì e pensa no, quando dice no e pensa sì. Quello era un no che voleva dire sì. Allora presi Rui Costa. Marina lo chiamò alle 7 del mattino: papà, avevamo detto di non comprarlo!».
Poi venne Kakà.
«E Rui Costa fece una cosa che non avevo mai visto e non ho mai più visto fare a nessun calciatore. Mi telefonò: “Kakà è molto più forte di me. Mi faccio da parte”».
Prendeste anche star in fase calante, come Beckham.
«Il contrario della star: mai visto un ragazzo più umile. Restituiva al magazziniere la tuta ben piegata, diceva che nelle giovanili del Manchester gli avevano insegnato così».
E Ronaldo.
«Faceva la scarpetta nel vassoio degli spaghetti al pomodoro. Ancelotti lo prendeva in giro: Fenomeno, almeno sai chi ti marca domani? E lui: io no, ma lui sa che deve marcare Ronaldo».
Cassano?
«Facemmo una litigata epica: aveva firmato da poco il contratto e già chiedeva il rinnovo. Ma ora siamo amici. Troppo simpatico. Un giorno Seedorf stava tenendo uno dei suoi alati discorsi, e Cassano gli fa: e tu chi sei, Obama?».
Qualche errore l’avrà pur fatto. Pirlo?
«Lo portammo via all’Inter. Forse non dovevamo lasciarlo andare alla Juve; ma forse da noi non avrebbe reso ancora così tanto. Semmai Berlusconi prendeva in giro il nostro direttore sportivo, il grande Braida: “Sei andato a Bordeaux e tra Zidane e Dugarry hai scelto il secondo!”».
Lei nel libro accenna al mancato ingaggio di Sarri. Cosa accadde?
«Cambiai idea quando lessi che aveva dichiarato: Renzi è addirittura peggio di Berlusconi. Così prendemmo Mihajlovic».
Ha anche incontrato il suo idolo Di Stefano.
«Al sorteggio di Champions lui rappresentava il Real Madrid e io il Milan; già questo mi emozionava. Quando poi per alzarsi in piedi si afferrò al mio braccio, ho pensato a mia mamma e mi sono venute le lacrime agli occhi».
E venne il giorno in cui Kakà doveste venderlo. Proprio al Real.
«Quella volta, mentre firmavo, piangevo proprio. Il mio amico Florentino Perez ci rimase male: Adriano, se vuoi annulliamo tutto. Ma ormai certi costi non potevamo più permetterceli».
Così avete preso il Monza.
«E alle 23.12 del 29 maggio 2022 a Pisa conquistammo la promozione in serie A. Due minuti dopo ricevo questo whatsapp».
«Sono molto contento per lei dottore e per il presidente, Sinisa Mihajlovic». Come immagina l’aldilà?
«Spero tanto che esista per mettere fine alla mia ricerca. Perché per tutta la vita ho cercato la mia mamma».
Lei è stato un senatore non molto presente.
«Quando mancavo mi sentivo in colpa. Ma quando ero in Senato mi sentivo in colpa perché non mi stavo occupando del Monza».
È vero che non prende più gli ansiolitici?
«Ho risolto scappando dallo stadio nell’intervallo e rifugiandomi nel Duomo di Monza, a cellulare spento. Esco solo dopo il fischio finale. Ma quando abbiamo battuto la Juve mi ha avvisato il chierichetto: abbiamo vinto!».