Avvenire, 13 maggio 2023
L’arte dello pseudonimo
«Scrivere è sempre nascondere qualcosa che venga scoperto» è l’idea di Italo Calvino che viene in mente quando gli scrittori usano la maschera dello pseudonimo: un meccanismo sempre più in voga anche per i best seller, dall’«amica geniale» Elena Ferrante alla nuova rivelazione del 2022, con Fabbricante di lacrime, Erin Doom, la trentenne emiliana di formazione giuridica che si chiama Matilde nella realtà ma DreamsEater su Wattpad, la piattaforma di social reading più famosa al mondo dove ha esordito. Anche fuori dalle pagine dei libri gli alias sono diffusi: dai nickname su social e app (quello di Zerocalcare gli resterà per i suoi graphic novel, genere dove spopola un altro nom de plume, Fumettibrutti) ai nomi di copertura dei supereroi dei fumetti fino all’arte con lo street artist Banksy. La casistica delle motivazioni è ampia, come dimostra una ricerca-antologia del Laboratorio di editoria della Cattolica dal titolo All’ombra di un nome perché «spesso una maschera ci dice più cose di un volto» secondo Oscar Wilde.
Il superamento del pregiudizio verso la scrittura delle donne è la causa più frequente nell’800 per salvaguardare la rispettabilità.
Louisa May Alcott sceglie per Piccole donne un nome maschile, A.M. Barnard, così come i capolavori delle sorelle Brontë hanno in copertina i maschili Ellis, Currer e Acton Bell: «non ci dichiariamo donne perché ciò che scriviamo non vogliamo che venga fatto rientrare sotto un’etichetta. Vogliamo evitare i pregiudizi». Ma lo pseudonimo può servire anche a denunciare una situazione, attraverso la maschera, come fa Eric Arthur Blair diventando George Orwell, sebbene la scelta sia dettata anche dal desiderio di non far vergognare la famiglia in caso di insuccesso.
Mentre Daniel Pennacchioni diventa famoso come Pennac perché vuole che il suo pamphlet antimilitarista d’esordio non intacchi la reputazione del padre, militare di carriera. Appare invece la scelta di svincolarsi dai meccanismi del mercato editoriale o di alleggerire la pressione della fama quella dell’ideatrice di Harry Potter. La Rowling, che già all’uscita della saga è invitata dall’editore a indicare il suo nome con solo due iniziali per non mostrarsi donna, quando scrive il primo poliziesco si vuol mettere alla prova lasciandosi alla spalle la fama del maghetto e firmandosi Robert Galbraith: tuttavia riceve rifiuti, ma tutto cambia quando svela l’identità effettiva con sette milioni e mezzo di copie in una settimana. Anche il premio Nobel Doris Lessing ci prova e non sono soltanto grattacapi femminili. Stephen King, determinato a superare l’opinione degli editori che il pubblico non smaltirebbe più di un suo libro all’anno, fa uscire quattro romanzi, di buon successo, firmati Richard Bachman. E Agatha Christie usa il nome Mary Westmacott per alcuni romanzi rosa. Il suo segreto durerà quindici anni, mentre quello dell’autrice dello scandaloso Histoire d’O ben quaranta. La poetica talvolta è espressa proprio attraverso un’identità plurima: Stendhal sembra abbia utilizzato 350 pseudonimi nelle lettere e sono 27 quelli del padre del commissario Maigret, per gestire la sua bulimìa di scrittura, forse per quel «tratto profondo di isteria» che ammetteva Pessoa, con vari eteronimi. Ci sono poi pseudonimi come atto di omaggio: alla propria bàlia (Saba) o alla nonna (Moravia) o alle proprie origini (Italo Svevo, che rende ossequio all’Italia e alla Germania insieme) o a un poeta (Neruda) o a un patrigno per dispetto alla madre (Truman Capote). Aveva ragione la Austen. Nel 1813, scrivendo al fratello, l’autrice di Orgoglio e pregiudizio riflette sul suo pseudonimo avendo in mente un fine non secondario della sua scrittura e di ogni professione, ammettendo: «Cercherò piuttosto di trarne, invece che tutto il mistero, tutto il denaro che posso»