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 2023  maggio 13 Sabato calendario

Biografia di Rachel Carson

Nell’agosto del 1945, quando le bombe atomiche vennero sganciate su Hiroshima e Nagasaki, Rachel Carson aveva trentotto anni. Era una scienziata esperta, collaborava con alcuni giornali e aveva già pubblicato il suo primo libro sul mare, Under the Sea-Wind. La biologia marina non era solo il suo campo di specializzazione ma anche quello di elezione, tanto che oggi alcuni critici lamentano che il successo fuori scala di Primavera silenziosa abbia oscurato nel tempo le opere «marine» di Carson, altrettanto meritevoli, in particolare The Sea Around Us. Per esigenze economiche, tuttavia, nelle sue ricerche Carson si era occupata un po’ di tutto: topi, scoiattoli, embrioni di pesce, vipere, moscerini della frutta. Il padre e la sorella maggiore erano morti, lasciando a lei il mantenimento della madre e di due nipoti: non c’era incarico che potesse rifiutare.
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, le bombe di Hiroshima e Nagasaki non furono l’apice dell’epoca nucleare. Ne furono semmai l’inizio, e il culmine in termini di catastrofe umana. Ma la smania delirante dell’epoca atomica si scatenò soprattutto dopo la fine della guerra. Crossroads, Greenhouse, Ivy Mike, Castle Bravo sono alcune delle esplosioni atomiche prodotte a scopo sperimentale dagli Stati Uniti nell’arco di un solo decennio, ognuna più disastrosa della precedente. I test nucleari immisero nell’atmosfera una quantità ingente di elementi nuovi, isotopi e radionuclidi, alcuni dei quali prima non esistevano sul pianeta. Quel periodo sarà riconoscibile anche fra migliaia di anni negli strati di terreno – se ci sarà ancora qualche essere umano per analizzarli – come una discontinuità geologica (ed esistenziale). Per la prima volta, attraverso il fall-out radioattivo, ovvero l’insieme dei prodotti secondari di un’esplosione nucleare, la specie umana lasciava un’impronta indelebile del proprio passaggio.
È importante contestualizzare Primavera silenziosa in quel preciso momento storico. Risulta infatti chiaro, leggendolo, che le intuizioni di Rachel Carson sul Ddt, sugli altri insetticidi chimici e su ciò che stavano facendo al pianeta le furono possibili grazie all’esempio nefasto dei test atomici. Da una forma di contaminazione, quella radioattiva, Carson fu in grado di riconoscerne una diversa, altrettanto invisibile ma meno eclatante: quella chimica. Non a caso, il libro inizia con un’analogia fra l’inquinamento da stronzio 90 (un prodotto secondario della fissione nucleare) e «certe sostanze chimiche irrorate sui terreni coltivati». E, non a caso, Carson ricorre più volte all’espressione «fall-out chimico», quando l’unico fall-out conosciuto al tempo era, per l’appunto, quello atomico. È lei stessa a sottolineare l’assonanza in apertura del saggio: «Parallelamente all’eventualità della totale estinzione del genere umano in una guerra atomica, l’altro fondamentale problema della nostra epoca consiste, dunque, nella contaminazione dell’ambiente in cui viviamo a opera di sostanze con un incredibile potenziale di devastazione». La possibilità nuova dell’estinzione della specie umana, offerta dalle bombe atomiche, ha reso per la prima volta l’impensabile pensabile. La coincidenza fra la minaccia atomica e quella chimica è precisa anche sul piano temporale. Il 1945, l’anno delle bombe sul Giappone, è lo stesso in cui il Ddt, che per noi è ormai sinonimo di veleno sterminatore, inizia a essere utilizzato massicciamente in agricoltura, festeggiato da ogni parte come il rimedio definitivo a tutte le preoccupazioni dei coltivatori, ribattezzato addirittura, per associazione diretta con l’atomica e con un entusiasmo sinistro, the insect bomb. Ci sono prove che Rachel Carson si sia interessata ai rischi connessi al Ddt già quell’anno ma, come spesso accade, l’opinione pubblica e quella dei media erano molto più indietro di così, l’argomento non rivestiva un interesse sufficiente per la rivista con cui Carson collaborava e nessun articolo al riguardo le venne commissionato.
La temperie culturale nella quale maturò Primavera silenziosa era tuttavia ancora più ampia del progresso atomico. Il dopoguerra fu il tempo della fiducia illimitata nella scienza. La fisica e la chimica in particolare venivano da un cinquantennio rivoluzionario, nel quale si erano avvicendate scoperte di entità tale da non essere nemmeno ipotizzabili prima. La relatività e la meccanica quantistica, la corsa allo spazio, la sintesi di prodotti nuovi come i fertilizzanti, che promettevano di risolvere nientemeno che la fame nel mondo: tutto nell’arco di un paio di generazioni. Dopo due guerre mondiali, l’umanità era sconvolta dall’enormità del proprio ingegno almeno quanto lo era dalla propria capacità di distruzione, e probabilmente il legame fra i due aspetti non è stato ancora oggi pienamente esplorato. Anche la bomba atomica, «il frutto innaturale della manomissione dell’atomo da parte dell’uomo», una mela avvelenata, marcia al suo interno, era bellissima da contemplare dal punto di vista tecnologico. Gli scienziati erano ubriachi dei propri successi, si sentivano invincibili. Avrebbero risolto nell’arco di poco tempo, letteralmente, qualunque problema residuo dell’umanità. Immaginate, agricoltori, un mondo senza parassiti! Ecco quale fu la promessa del Ddt in quel contesto. Qualsiasi critica veniva azzerata sul nascere, anche attraverso l’assorbimento degli scienziati da parte dell’industria chimica, che faceva montagne di soldi. Primavera silenziosa fu un sussulto di coscienza nel mezzo di questa Era dell’arroganza, nel mezzo della mancanza diffusa di «senso delle proporzioni».

«Siamo in un’era di specialisti», scrive Carson, «ciascuno dei quali vede solo il suo particolare problema ed è ignaro del più vasto quadro in cui esso va collocato». La specializzazione, prima di allora, non aveva mai raggiunto livelli tanto esasperati. Gli studi in ogni campo erano avanzati così in fretta che agli scienziati non restava che concentrarsi esclusivamente, ossessivamente sul proprio angolo di realtà, tralasciando il contesto. Erano diventati tutti «entomologi», quando il mondo aveva un bisogno disperato di «biologi». Rachel Carson era una biologa. Nel gennaio 1958 ricevette una lettera da un’amica: Olga Owens Huckins aveva visto morire gli uccelli magnifici che ospitava nel suo giardino a Duxbury, Massachusetts. La strage era avvenuta in seguito a una disinfestazione aerea contro le zanzare, quantità generose di Ddt, l’insetticida miracoloso, erano state spruzzate su tutta la zona di Duxbury. Ormai erano trascorsi dodici anni dall’annuncio entusiastico della insect bomb, dodici anni di irrorazione selvaggia e indiscriminata dei terreni, delle aree urbane, delle foreste negli Stati Uniti, e le evidenze del pericolo si erano accumulate. Voci di dissenso, seppur isolate, esistevano. Forse i tempi erano davvero maturi. La lettera convinse Carson a iniziare le ricerche e la stesura di Primavera silenziosa. Avrebbe impiegato quattro anni per finirlo.
In realtà, il Ddt (para-dicloro-difenil-tricloroetano) era solo uno degli agenti chimici impiegati massicciamente in quel periodo. Sarebbe diventato il capro espiatorio di una gamma di insetticidi ben più ampia, che comprendeva anche l’aldrina, la dieldrina, l’endrina, il clordano, l’eptacloro, il lindano, il malathion e il parathion. Carson li esaminò tutti, nei loro scopi e nei loro effetti collaterali sciagurati; raccolse dati, testimonianze ed evidenze scientifiche, per poi comporli in un paesaggio di devastazione che dovette ricordarle da vicino Hiroshima. Che sia stata una donna a comporre per prima quel quadro potrebbe apparire insignificante, una nota a margine addirittura offensiva. Io ritengo importante sottolinearlo. Perché una critica così radicale di quell’Era dell’arroganza, del potere testosteronico e schiacciante della scienza e dell’industria chimica, poteva venire solo da chi, per sua costituzione, si trovava ai margini del sistema. Comunque la si pensi a questo proposito, la visione d’insieme appartiene a Carson e a lei soltanto. Ed è per questo che Primavera silenziosa rappresenta ancora oggi il testo fondamentale di ogni educazione ambientalista. Di più: di ogni educazione scientifica.
Posso tentare, con quel tanto di spregiudicatezza necessaria, di riassumere qui i passaggi cruciali del percorso logico del libro:
1) il ricorso alle monocolture intensive ha creato le condizioni favorevoli alla proliferazione di insetti che prima esistevano, ma non costituivano un problema essenziale;
2) gli agricoltori, minacciati dall’aumento di insetti e avendo a disposizione dei nuovi agenti chimici di straordinaria potenza per eliminarli, hanno deciso di impiegare gli insetticidi senza criterio o misura (non solo i singoli agricoltori, a dire il vero: molti programmi di disinfestazione erano portati avanti a livello statale);
3) gli agenti chimici avevano però effetti collaterali seri, erano veleni. Hanno contaminato il suolo, l’acqua, la vegetazione, tutto, uccidendo altre specie;
4) inaspettatamente, e al contrario degli altri animali che hanno tempi evolutivi più lunghi, gli insetti hanno sviluppato in fretta delle forme di resistenza agli insetticidi, spingendo l’industria a produrne di ancora più micidiali e gli agricoltori a utilizzarli più copiosamente, in un’escalation di morte all’apparenza inarrestabile.
C’è almeno un aspetto del ragionamento che risulta ancora oggi pionieristico: Carson non negava il problema di partenza degli agricoltori, la piaga degli insetti, ma ne spostava l’origine una casella più indietro, nella pratica sbagliata delle monocolture intensive (un problema che, a distanza di sessant’anni, non abbiamo ancora osato affrontare nella sua gravità, né in agricoltura né tantomeno nell’allevamento di bestiame).
La concatenazione è il modo di argomentare prevalente di Primavera silenziosa. Le pagine più sorprendenti sono proprio quelle in cui Carson illustra il percorso subliminale del Ddt e dei vari composti tossici da un serbatoio all’altro, da una specie a quella a essa collegata. Scrive: «Uno degli aspetti più sinistri del Ddt e delle sostanze chimiche similari riguarda la trasmissibilità da un organismo all’altro attraverso tutti gli anelli della catena alimentare». I casi specifici che presenta sono parecchi. Eccone qualcuno a titolo di esempio:
Il tentativo di salvare gli abeti canadesi da un’invasione di Choristoneura fumiferana portò all’irrorazione delle foreste attorno al fiume Miramichi, risalito ogni anno dalla popolazione di salmoni. L’acqua venne contaminata sia direttamente sia dagli aghi caduti dagli abeti, portando «agonia» a tutta la microfauna acquatica. I salmoni si trovarono così senza nutrimento e morirono nella loro quasi totalità.
In New England, dal 1954 in avanti, si cercò di salvare gli olmi olandesi da un lepidottero chiamato Lymantria dispar, le cui larve divorano le foglie degli alberi. Il Ddt sterminò accidentalmente anche altri insetti che dimoravano nelle piante, così come i ragni (e fin qui tutto bene, perché a nessuno importa davvero dei ragni e degli insetti). Peccato che, con l’arrivo dell’autunno, si formò al suolo una poltiglia di foglie morte e Ddt, di cui si nutrivano i lombrichi, che a loro volta erano il pasto principale dei pettirossi. A ogni passaggio della catena alimentare – ecco un’altra intuizione cruciale di Carson – la concentrazione di Ddt aumentava: da apparentemente innocua sulle foglie, diventava elevata nei lombrichi e letale negli uccelli.
A Sheldon, Illinois, l’utilizzo scriteriato di dieldrina (cinquanta volte più tossica del Ddt) portò a una vera desertificazione. L’obiettivo da colpire era un coleottero chiamato Popillia japonica, originario del Giappone e dannoso per una varietà di specie arboree. Ma insieme alla Popillia morirono in massa gli uccelli, i topi muschiati, i conigli, le pecore, perfino i gatti domestici. Da un anno all’altro la primavera di Sheldon, privata del canto degli uccelli, divenne sinistramente «silenziosa».
«C’era una volta una città nel cuore dell’America dove tutta la vita sembrava scorrere in armonia con il paesaggio circostante»: il libro inizia così, come una fiaba nera, parlando proprio di Sheldon e di altre località degli Stati Uniti che avevano subito una sorte analoga. Le foreste, un tempo «incantate», adesso erano «avvelenate». Su tutto il mondo si era posata una «veste di Medea» altamente tossica.

Suolo, acqua, aria, vegetazione, micro e macrofauna: tutto viene coinvolto, perché tutto è collegato. Pensare per ecosistemi può apparirci scontato oggi, ma non lo era all’epoca di Rachel Carson. Il termine «ecosistema» era apparso in un articolo scientifico solo nel 1935, e gli anni di Carson erano i primi in cui la nuova visione ecologica, la visione del tutto-collegato, si andava affermando. Spesso il punto di arrivo della contaminazione chimica era proprio il corpo umano, in particolare i tessuti adiposi, che fungono da strutture di accumulo dei veleni. Perciò ecco i casi sporadici di intossicazione, le strane epidemie, i decessi inspiegabili.
Mentre scriveva Primavera silenziosa, Rachel Carson si ammalò di cancro al seno. Subì una mastectomia radicale, che tuttavia non fu risolutiva. Altre metastasi comparvero a distanza di pochi mesi e in breve tempo si estesero al resto del corpo. Dorothy Freeman, la donna con cui Carson mantenne una lunga corrispondenza, probabilmente il grande amore della sua vita, innominabile per ovvie ragioni, la implorò di rinunciare al libro: nelle sue condizioni lo sforzo era eccessivo. Carson, di contro, le chiese di non fare parola con nessuno della malattia: l’industria chimica l’avrebbe usata contro di lei per screditarla. Quanto a scrivere un’opera più breve, non se ne parlava. Per lasciare il segno doveva essere ambiziosa oltre le sue energie, ed esaustiva. Colpisce come fosse cosciente, già in corso d’opera, dell’impatto che Primavera silenziosa avrebbe avuto sulla società, così come degli attacchi che avrebbe ricevuto (e che ricevette). Ma scommetto che non prevedesse quanto avanti nel tempo, e nell’immaginario, la sua influenza sarebbe arrivata.
Nell’ultima parte del libro sembra quasi che l’avvicinarsi della morte liberi nella scrittrice energie poetiche fino a quel momento trattenute dietro il rigore scientifico. Il tono si fa più lirico, il procedere più fantasioso, c’è perfino qualche concessione al racconto personale. Il quindicesimo capitolo in particolare è un’ode alla bellezza della natura, o forse un accorato messaggio di congedo. «Ricordo che, quand’ero ancora una giovane studentessa, restavo strabiliata di fronte al miracolo di una vaschetta contenente un po’ di fieno in acqua, alla quale veniva aggiunta qualche goccia di materiale prelevato da una coltura ben sviluppata di protozoi: in pochi giorni la bacinella pullulava, per così dire, di un’intera galassia di guizzanti e velocissime forme viventi – trilioni di microscopici parameci, piccoli come granelli di polvere e proliferanti senza alcun freno in quel paradiso terrestre ricco di nutrimento, alla giusta temperatura e privo di nemici. Oppure rammento le scogliere bianche come la neve perché interamente ricoperte di balanidi; o, infine, lo spettacolo offerto da un corteo di chilometri di meduse pulsanti, impalpabili e inconsistenti come l’acqua che le trasportava».
Dopo gli innumerevoli orrori descritti, dopo aver documentato tanta devastazione, Carson sembra ricercare nel proprio passato, nell’osservazione estatica della natura da cui tutto è iniziato quando era ragazza, un po’ di conforto al senso di fine che incombe su di lei, alla sofferenza. Morì due anni dopo la pubblicazione del libro, nel 1964. Ce ne sarebbero voluti altri otto perché il Ddt venisse proibito negli Stati Uniti. Nel frattempo, il movimento ambientalista americano si era aggregato intorno a quella causa, per poi assumerne di nuove, decennio dopo decennio. Chiunque oggi partecipi alla preoccupazione collettiva per l’ambiente e per il clima, chiunque contribuisca nel suo modo personale alla consapevolezza ecologica, deve sapere che quella consapevolezza ha un punto di inizio. E che sono stati soprattutto un libro e una persona a condurci dove siamo adesso.

Ma dove siamo adesso? Insetticidi, pesticidi e veleni vari sono usciti dall’agenda ambientalista ormai da tempo. Non che non costituiscano un problema, soprattutto in aree economicamente più svantaggiate del pianeta, ma al centro del dibattito, anche scientifico, ci sono temi diversi: i gas serra e il riscaldamento globale innanzitutto, poi la scarsità di risorse idriche e altre forme più contemporanee di inquinamento, come quello da microplastiche. Per Rachel Carson, tutto questo era imprevedibile.
E tuttavia, il suo libro rimane attuale per il modo in cui ci invita a ragionare sui temi ambientali del presente: gli ecosistemi, le concatenazioni micidiali, il ragionamento fondato sui dati, la rivendicazione della bellezza, la presa di posizione politica. E la ricerca di soluzioni. Perché, in Primavera silenziosa, Carson non si limita a enunciare problemi, fornisce anche soluzioni alternative. L’umanità, scrive citando una celebre poesia di Robert Frost, si trova a un bivio: da una parte le soluzioni «chimiche», dall’altra quelle «biologiche». Una strada conduce all’autodistruzione, l’altra alla salvezza.
È facile cadere in inganno interpretando con una mente contemporanea la contrapposizione fra «chimico» e «biologico». Sono parole equivocate, maltrattate, che una certa dottrina spiritualistica ha nel frattempo caricato di connotazioni sbagliate. Occorre pertanto una precisazione: nessuna affermazione di Carson ha un carattere religioso. La sua «natura» non è mai sacra. È magnifica da contemplare, ci siamo immersi, anzi, ne facciamo parte, ma rimane un oggetto di osservazione scientifica. La natura in sé non è né perfetta né in grado di badare a sé stessa, tantomeno a noi. Il punto, quindi, non è se interferire o meno nei suoi processi, bensì come interferire. «Come»: l’avverbio prediletto dalla scienza, così spesso trascurato. «“Controllo della natura”», scrive Rachel Carson, «è un’espressione piena di presunzione». Ma esistono modi sensati e sostenibili di influenzare l’ambiente a nostro beneficio. La via che Primavera silenziosa ci indica è la stessa che dovremmo imboccare oggi, ed è la stessa che in quest’era – che forse non è più l’Era dell’arroganza ma di certo è l’Era del mancato ascolto – spesso evitiamo di prendere, continuando a sbandare fra eccessi di scientismo e derive misticheggianti. Ed è una via fondata su una sola, semplice e dirimente parola: conoscenza.