La Lettura, 14 maggio 2023
Intervista a Wole Soyinka - su "Cronache dalla terra dei più felici al mondo" (La nave di Teseo)
A 88 anni Wole Soyinka non ha intenzione di abbassare la guardia. La sua voce arriva a tratti disturbata dalla casa immersa nella natura ad Abeokuta, vicino a Lagos, ma l’energia e la forza delle sue parole sono le stesse di quando nel 1986 vinse, primo scrittore africano, il Premio Nobel per la Letteratura. L’impegno che lo ha portato negli anni ad essere il più feroce critico della dittatura e della corruzione in Nigeria (in cambio ebbe 22 mesi di carcere durante la guerra del Biafra e poi anni di esilio sotto la dittatura del generale Sani Abacha) informa anche la nuova opera, Cronache dalla terra dei più felici al mondo, in uscita presso La nave di Teseo, che presenterà domenica 21 maggio al Salone di Torino. È il terzo romanzo del grande scrittore, il primo in quasi cinquant’anni. In mezzo ci sono state opere teatrali, poesie, memoir e la toccante Ode laica per Chibok e Leah in cui Mandela incontra idealmente Leah Sharibu, una delle studentesse cristiane rapite da Boko Haram e mai rilasciata. La Nigeria immaginaria del nuovo romanzo è popolata da predicatori senza scrupoli, affaristi e politici corrotti, coinvolti in un traffico di organi umani da utilizzare in rituali. Nel libro domina il registro satirico, l’umorismo nero ne fa un’opera esilarante e profonda in cui il pessimismo connaturato alla situazione è rischiarato da scintille di speranza.
Perché un romanzo ora? Che cosa è cambiato nella sua ispirazione?
«È vero, non sono in prima battuta un romanziere, ma un drammaturgo. Tuttavia il materiale confluito in questo romanzo ribolliva dentro di me da molto tempo e ad un certo punto è stato schiacciante, opprimente. Molto di quello che c’è nel libro è vero, direi che per il 50 per cento è basato sulla realtà. È come se si fossero accumulati una negatività dopo l’altra, un tumulto dopo l’altro, una crisi dopo l’altra. Tutto ciò mi ha sopraffatto e ho capito che questa intensità non poteva essere gestita soltanto dal teatro. Dalle Cronache si possono prendere tanti aspetti, personaggi o situazioni, e ognuno potrebbe essere un’opera teatrale, un dramma a sé. Il romanzo si è presentato come una forma naturale per rappresentare quel grado di contraddizione, di complessità, di perdita di valore e di direzione, di disprezzo per la legge, insomma di svalutazione della vita umana, che coglievo intorno a me. Ho capito che dovevo vivere e affrontare tutti questi temi in un unico libro».
La Nigeria non è «la terra dei più felici al mondo» come dice ironicamente il titolo, eppure il World Happiness Report che «misura» la felicità nazionale, qualche anno fa, l’ha messa ai primi posti. Come è possibile?
«Quando l’ho visto non ci potevo credere. Ricordo di avere urlato: sono nel posto sbagliato. Devo andare a cercare questa Nigeria, perché non la conosco. Allo stesso tempo è stato gratificante vedere che qualcuno, da qualche parte entro questi confini, sperimenta una forma di felicità».
«Cronache dalla terra dei più felici al mondo» è un romanzo difficile da definire dal punto di vista del genere: è satira, «detective story», complotto, ma soprattutto denuncia di una società in cui dominano corruzione, fondamentalismo, violenza e fanatismo. Lei come lo definirebbe?
«Non mi sorprende più di tanto che possa essere letto come una detective story perché ho sempre voluto scriverne una e questa storia me ne ha offerto l’opportunità. Ma per il resto è difficile da spiegare. È così quando ti trovi in un ambiente che ti opprime, che comincia a sopraffarti al punto che non sai nemmeno da dove cominciare. Ti chiedi: quale aspetto devo affrontare per primo? La corruzione materiale? Il crescente disprezzo per la vita umana? L’indifferenza verso i valori fondamentali della famiglia, dell’amicizia? Si potrebbe anche definire una specie di lamento per i giorni dell’innocenza. Non esiste una data assoluta della perdita dell’innocenza, ma a un certo punto ti rendi conto che la mancanza di valori comuni, come l’integrità, la giustizia, la riduzione del divario tra i poveri e i ricchi, la protezione che lo Stato dovrebbe offrire e che invece non offre, mettono in discussione l’idea stessa di nazione. Quando si può affermare di avere una comunità? Non è un romanzo classificabile, con un timbro preciso, è una specie di tentativo di liberarmi da un peso».
Lei è sempre stato molto impegnato nel discorso pubblico, nella difesa della libertà di espressione, nella condanna della corruzione, del fondamentalismo. Come coesistono in lei queste due anime, l’attivista e lo scrittore?
«È una domanda molto difficile, forse è qualcosa che ho bevuto o mangiato quando ero piccolo (ride). Il fatto è che se le cose intorno a me non sono come vorrei che fossero, mi trovo costretto a sospendere anche le altre attività, sono incapace di fare tutto ciò che faccio normalmente, cioè scrivere. E sarebbe così anche se non fossi uno scrittore, ma un architetto o un musicista o uno che costruisce strade. Trovo difficile mettere da parte ciò che non sopporto della realtà che mi circonda, a livello politico, sociale, della giustizia, della libertà, della violenza, insomma dell’umanità, per fare quello che voglio fare davvero. Solo così ottengo la tranquillità per dedicarmi a ciò che amo. Ho bisogno che le cose intorno a me siano almeno tollerabili per poter scrivere».
In questo romanzo ci sono anche personaggi positivi che cercano di lavorare seriamente, di «restituire» qualcosa alla società. Alcuni riassumono una contraddizione, come il dottor Menka che ricuce gli arti di vittime degli attentati ma in passato ha tagliato un braccio a un ladro, secondo la legge islamica.
«Incontro continuamente persone di questo tipo. Questo è una consolazione e allo stesso tempo parte del problema. Si vede l’enorme talento che c’è nelle arti, per esempio, o nelle scienze e nella tecnologia, ma molte nostre ricchezze intellettuali sono ormai altrove. Si possono trovare ovunque nel mondo, anche alla Nasa ci sono nigeriani. Sono sicuro che se si va in Ucraina, si trovano ancora nigeriani, nonostante l’orrore che sta accadendo. Quindi, da un lato c’è la rabbia per chi è costretto a lasciare il proprio Paese per trovare una forma di realizzazione, dall’altro la consapevolezza di quanto sforzo devono fare coloro che hanno scelto di rimanere per ottenere soddisfazioni professionali. Diciamo che a molti di loro questo costa circa quattro volte di più rispetto a chi sta fuori. Tanta energia, tanto dolore, tanta frustrazione per raggiungere lo stesso livello di gratificazione. È una delle cose di cui parlavo prima, che mi fa arrabbiare e mi rende improduttivo».
Nel romanzo un altro personaggio centrale è Papa Davina, un furbo leader religioso, fondatore di un culto che, di fatto, è un centro di potere e denaro. E forse è l’altra faccia del fondamentalismo di Boko Haram.
«Uno dei più grandi affari qui — non soltanto in Nigeria ma anche in molte altre parti del continente africano — è la religione. Molte persone vi si dedicano. Conosco persino professori molto preparati, con cattedre nelle università, che fondano piccole chiese o moschee nel campus o fuori. E lo fanno perché ci sono in ballo i soldi, anche se sostengono di nutrire le anime. Dicono di occuparsi della ricchezza spirituale, della salute dei loro colleghi, invece sono ciarlatani, sono lì semplicemente perché sono furbi e vedono che altre persone stanno facendo soldi in questo modo e pensano: beh, perché non fare lo stesso e integrare il mio stipendio da professore? Naturalmente la televisione, la rete, sono diventati la borsa valori, dove chiunque può andare a offrire beni, anche spirituali, in cambio di qualsiasi cosa, azioni di società, proprietà immobiliari. A volte li guardo e dico: potrei recitare meglio di loro. Perché sto sprecando le mie energie facendo lo scrittore? Posso essere più convincente di tutti questi delinquenti. Questo tipo di persone ci sono sempre state, fin da quando ero piccolo e andavo in chiesa. Riesco istintivamente a valutare quali di loro sono truffatori e quali sono ispirati dallo spirito, perché esistono anche coloro che sono effettivamente impegnati nella religione, interessati soprattutto all’etica incorporata nel loro culto. Ma per la maggior parte temo non sia così, alcuni hanno deciso fin dall’inizio che questo dovesse essere un mega business. C’è addirittura chi possiede un jet privato...».
E poi c’e il fondamentalismo.
«La parte più spaventosa. Alcuni di loro sono più che materialmente corrotti, lo sono dentro, sono criminali che uccidono davvero, per fare rituali o per altri motivi. Ci sono culti che hanno avuto derive estreme che non hanno nulla a che fare con la religione, soprattutto sul versante islamico, non dobbiamo temere di dire la verità. Ci sono gruppi terroristi come Al Shabaab o come Boko Haram che hanno preso il controllo della vita di migliaia di persone, uccidono e rapiscono, come è successo alle studentesse di Chibok, inaugurando una nuova tratta degli schiavi. Rapiscono bambini e costringono le istituzioni governative, i genitori, gli amici a contrattare. È un problema molto reale nel continente africano».
Parliamo del Premio Nobel che ha ricevuto nel 1986. Questo premio, molto importante, è servito più a lei o più all’Africa?
«La letteratura è universale. A partire da questa idea, non ho mai creduto in quello che si potrebbe definire un sistema di quote, per cui a un certo punto “tocca” all’Africa. L’arte non accetta questa logica, come non l’accettano le scienze, non si parla di un’invenzione che funziona perché è russa o americana. E questo deve valere anche per le scienze umane. Tutte le culture hanno allo stesso modo consapevolezza del valore di un’opera. Naturalmente, quando si vince un premio come il Nobel ci si sente eccitati e quando sento che un economista o uno scienziato africano ottiene un riconoscimento prestigioso, naturalmente mi sento partecipe, mi sento orgoglioso. Ma credo che ci sia un giudizio di valore di un’opera che prescinde dalla provenienza».
Oggi uno dei temi cruciali, dal punto di vista politico e sociale, in Europa e soprattutto in Italia, è l’immigrazione. Come vede il problema dall’Africa?
«Questo fenomeno per me è sempre stato la manifestazione del drammatico e totale fallimento delle leadership africane. E questo vale per tutti i Paesi del continente. Se le risorse fossero state gestite bene, creando posti di lavoro, sviluppando iniziative, forme di produttività in tutti gli aspetti della vita, non avremmo le nostre giovani generazioni sprecate nel Sahara, le vite perdute nel Mediterraneo. È un problema che dovrebbe colpire la coscienza dei governanti e spingerli a unirsi per trovare una soluzione condivisa. Detto questo, penso che i Paesi europei abbiano dimenticato le lezioni che la storia ha impartito anche a loro. E l’approccio alla migrazione africana sa molto di xenofobia e di discriminazione. È evidente come l’Europa ha assorbito i rifugiati dall’Ucraina, con un’accoglienza strutturata e solidale. Sembra che ci si dimentichi che il tipo di atrocità che la Russia sta commettendo in questo momento è in corso da decenni nel continente africano. Anche questo ha contribuito al fenomeno migratorio. E l’Europa deve assumersi le proprie responsabilità perché non solo ha “sottosviluppato” l’Africa, per citare il titolo di un libro di Walter Rodney, ma ha anche indirizzato le energie creative che contribuiscono all’economia di qualsiasi nazione. Alcune migrazioni a cui assistiamo oggi sono un effetto a distanza del colonialismo e della condotta europea sul continente africano. Quindi entrambe le parti dovrebbero riunirsi e, anche se dovesse durare un anno intero, sedersi, discutere, sperimentare, provare e sbagliare, per accogliere e allo stesso tempo creare condizioni nel continente africano, oggi bloccato dallo spreco di talenti umani».
E gli Stati Uniti? Lei ha strappato la «carta verde» all’epoca della presidenza Trump...
«Con Trump ho visto un appello agli istinti più primitivi del popolo americano, un razzismo senza freni. Per invertire questa tendenza potrebbe essere necessario più di un mandato di presidenti progressisti».