La Lettura, 14 maggio 2023
Intervista ad Anthony Passeron - su "I ragazzi addormentati" (Guanda)
Un paesino nell’entroterra di Nizza, un macellaio intento a preparare i pezzi di carne, il figlio che gli chiede quale sia la città più lontana dove era stato in vita sua e la risposta dolorosa e terribile: «Amsterdam, in Olanda. Per andare a cercare quell’imbecille di Désiré». I ragazzi addormentati di Anthony Passeron è un bellissimo romanzo sullo smarrimento privato di una famiglia alle prese con la tossicodipendenza e l’Aids di Désiré, e lo smarrimento collettivo di una società che nei primi anni Ottanta non riesce a comprendere e a curare quello che all’inizio viene definito il «cancro dei gay». Le pagine drammatiche sulla storia famigliare si alternano a quelle, avvincenti, sulla ricerca e la competizione tra ricercatori francesi e americani.
Perché in questo suo primo romanzo ha voluto parlare della storia di suo zio Désiré e di tutta la sua famiglia?
«Prima ancora di pensare di scrivere un romanzo ho avuto bisogno di capire che cosa avesse significato l’Aids per noi. Nessuno ha mai voluto parlare di quella storia. A parte la frase enigmatica di mio padre su Amsterdam, un rifiuto assoluto».
Il rifiuto sembra essere una costante famigliare che precede l’Aids. Sua nonna Louise, altra straordinaria protagonista del romanzo, era immigrata poverissima dal Piemonte ma aveva cancellato le sue origini.
«È così, ed è una delle ragioni per cui non parlo italiano. Nella mia famiglia non si è mai parlato italiano perché Louise lo aveva rimosso per integrarsi il più possibile nel villaggio. Una marcia faticosa verso la rispettabilità, poi distrutta dall’amatissimo figlio, mio zio Désiré».
Che ricordi ha di quel periodo?
«Sono nato nel 1983, all’inizio dell’epidemia. I miei ricordi personali sono mia madre che si preoccupava quando la mia cuginetta Émilie si faceva male e le usciva il sangue o tanti compaesani che non volevano più frequentare mio zio. Per costruirmi come adulto ho sentito il bisogno di documentarmi e capire come l’Aids, la malattia degli artisti, sia arrivato in un paesino dell’entroterra nizzardo».
Perché alternare le pagine famigliari con quelle sulla ricerca scientifica?
«Ho pensato che fosse necessario avere una doppia narrazione, spiegare il terrore intimo e anche la paura collettiva. La vicenda scientifica poi è davvero da romanzo, alcuni suoi protagonisti si avvicinano all’età della morte, Jacques Lebovitch e Luc Montagnier sono già scomparsi. Ho voluto rendere omaggio alla mia famiglia e anche a quella generazione di scienziati».
Le pagine sui ricercatori appassionano perché mostrano come la scienza sia fatta da uomini, quindi influenzata da aspetti personali: amicizie, alleanze, i laboratori vuoti il weekend e quel medico che invece lavora sempre, la rivalità tra l’équipe francese e quella americana di Robert Gallo.
«Ho cercato di non fare una storia scientifica in senso accademico ma di mostrare quei medici come persone, che avevano quindi anche problemi e ambizioni personali, sottoposti poi a interessi politici, con gli americani che puntano subito al premio Nobel».
I politici tardano a prendere provvedimenti.
«In Francia bisognerà aspettare il 1986 o il 1987 e Jacques Chirac per avere le prime misure concrete, come le pubblicità dei preservativi o la vendita libera di siringhe per i tossicodipendenti. C’era sempre il presidente socialista François Mitterrand ma si è dovuta attendere la coabitazione con un primo ministro di destra per avere i primi progressi nella risposta pubblica. Forse perché la sinistra aveva paura di farsi criticare per quello di cui è accusata sempre, ovvero di essere troppo permissiva».
I malati sono colpiti da un triplo stigma sociale: tutti presunti omosessuali, anche se suo zio non lo era, tossicodipendenti e marchiati con l’Aids. Una condanna sociale che colpisce dalla nascita anche la sua cuginetta Émilie, sieropositiva e poi malata perché figlia di Désiré e Brigitte.
«All’inizio volevo scrivere soprattutto di mio zio ma poi si è imposta anche la figura della bambina, Émilie. Negli anni Ottanta i bambini sono stati le vittime invisibili dell’Aids, tanti sono morti dopo avere contratto la malattia per le trasfusioni o durante il parto. Ma a quei tempi l’Aids era considerata la malattia degli omosessuali, e immaginate che cosa sia stato ammalarsi di Aids in un paesino dove ancora oggi ufficialmente non esistono omosessuali ma solo vieux garçons, “scapoloni”».
Era la malattia delle star. Il primo fu Rock Hudson, costretto ad affittare un aereo intero per tornare negli Stati Uniti dopo essere stato allontanato dall’Hôpital americain di Neuilly, alle porte di Parigi.
«Anche tra le celebrità regnava il silenzio e la vergogna. Il grande filosofo Michel Foucault morì di Aids ma nessuno lo sapeva, neanche lui stesso, forse aveva scelto di non sapere. Se la vergogna dominava a Hollywood e nell’ambiente intellettuale, immaginate cosa deve essere stato l’Aids in un paesino di mille abitanti nei monti sopra Nizza».
Nella storia della sua famiglia c’è un altro aspetto sorprendente, ovvero il percorso così differente dei due fratelli. Suo padre René, figlio modello, gran lavoratore, che lascia la scuola dove pure aveva buoni risultati per dedicarsi alla macelleria di famiglia. E suo zio Désiré, fratello maggiore, con la Bmw e l’amore per la bella vita, il viaggio ad Amsterdam e infine l’eroina. Stessa famiglia, stessi genitori, la stessa educazione, due vite opposte.
«Ho voluto scrivere un libro non solo sull’Aids, ma su quello che l’Aids ha finito per cristallizzare in una famiglia. Mio padre è sempre stato geloso del fratello, preferito perché primogenito. Ho voluto analizzare quel che la malattia ha cambiato nel percorso di mia nonna Louise, coraggiosissima e infaticabile, e in quello di mio padre e mio zio, diversissimi anche se separati da soli tre anni».
Dal punto di vista letterario come ha proceduto? C’è qualche autore dal quale si sente più influenzato?
«Non me ne sono reso conto mentre scrivevo, ma a posteriori direi Annie Ernaux e Didier Eribon. Di mestiere faccio l’insegnante di Storia e Geografia, non ho specifiche competenze sociologiche. Ma la lettura di Ernaux e di Eribon mi ha spinto a guardare in modo diverso il villaggio nel quale sono cresciuto, aggiungendo uno sguardo sociologico, collettivo, alla mia storia personale».
Uno dei protagonisti della ricerca sull’Aids è stato Luc Montagnier, premio Nobel nel 2008 (assieme a Françoise Barré-Sinoussi), morto l’anno scorso a 89 anni dopo una deriva complottista e «no vax». Che cosa pensa di lui?
«Ho capito a che punto il Nobel può attribuire un credito immeritatamente definitivo. Quel Nobel è stata un’occasione mancata, sarebbe stato più giusto ricompensare quella che fu una grande avventura scientifica collettiva».