Robinson, 13 maggio 2023
Biografia di Oliver Goldsmith
«Qualsiasi cosa tocchi con la sua penna, Oliver Goldsmith l’abbellisce» : così, più o meno (sto parafrasando), scriverà di lui Samuel Johnson sull’epitaffio che decora il monumento funebre nell’Abbazia di Westminster, nel transetto dedicato ai poeti, the Poets’ Corner. Lo scrive in latino –nihil quod tetigit non ornavit – perché nel Settecento, secolo illuminato e illuminista, l’uomo inglese colto vantava un rapporto diretto con quella lingua, che dopo tutto era la lingua di un Impero, cui i potenti dell’isola si ispiravano nel loro esercizio del Potere. In quegli anni, per l’uomo colto (e il dottor Johnson ne personificava l’ideale), per l’uomo che aveva frequentato le grandi scuole del regno, il mondo degli scrittori latini era un patrimonio civile quotidiano, a cui uniformare il suo decoro, e a cui rivolgersi per un conforto spirituale.Chi è Oliver Goldsmith? È un giovinotto irlandese di poveri natali, non destinato per nascita e classe a frequentare collegi e scuole eccellenti; epperò, lo troviamo per merito al Trinity College di Dublino e poi nelle università di Edimburgo e di Leida, dove segue corsi di medicina. Nel 1756 è a Londra, dove si guadagna da vivere scrivendo recensioni per laMonthly Review. E nella metropoli, in quegli anni crogiolo di esperienze intellettuali ed esistenziali ricche e per lui decisive, sviluppa le sue doti di giornalista, saggista, scrittore e drammaturgo.Sì, proprio all’inizio della sua carriera è il tipico “Grub Street hack writer” – ovvero, un pennivendolo, uno scribacchino; che, però, pur nello squallore di Grub Street, strada malfamata, coltiva come può la sua Musa. E da questa devozione nasceranno nel 1766, il romanzo assai noto Il vicario di Wakefield, e nel 1773 Lei si abbassa per conquistare, forse la più effervescente commedia dell’epoca.Sì, sarà pure il «filosofo indigente» quale si definisce, d’accordo; ma come spiega in un articolo, si può «scrivere anche per la pagnotta». Il che non significa che non si possa contribuire alla ricchezza culturale di un paese.Di certo gli scritti che compaiono nell’“efemerica” rivista L’Ape, con impareggiabile acribia curati da Daniele Savino, lo dimostrano. In tal senso, specie nei nostri tempi, in cui nuovi media appaiono, che sconcertano alcuni e deliziano altri, la lettura di queste pagine, da non trattare come un reperto memoriale del bel tempo che fu, ci aiuterà a riflettere su come cambino le forme di comunicazione, per quali vicende e perquali scopi. Per quali necessità espressive.È appunto il 1759, secondo Daniele Savino (concordo), l’anno cruciale per la carriera di Oliver Goldsmith, quando si dedica a L’ape: la rivista settimanale da lui completamente allestita e curata. Degli scritti che vi compaiono è composto questo elegante volume di Aragno, che ci consente di seguire l’autore nelle opere che commenta, e nei fatti che racconta. Sempre notevole è il modo, e cioè la versatilità, incluse le incoerenze e le efflorescenze che ne derivano, con cui si avventura nei media più vari, dalla poesia, al saggio, al racconto. La digressione è il principale metodo del suo pensiero, grazie al quale artificio, supremamente sterniano, partendo da un tema centrale, ci conduce per scorciatoie e vie laterali, obbligandoci a inquietanti, ma fruttuose peripezie. Dello spirito, dell’esprit, del wit innato a tale procedimento formale e mentale, questi saggi testimoniano. E insieme documentano una straordinaria performance narrativa.