Tuttolibri, 13 maggio 2023
L’esordio letterario di Malika Ayane
Capita che se non fai casino la sera, il giorno dopo sali quattro piani di scale a chiocciola senza l’istinto di vomitare e quasi hai voglia di cantare d’amore. Capita anche che se le giornate sono storte, l’unico posto per riconciliarti con il mondo è un locale, dove sfogare le delusioni. E così via. I racconti di Malika Ayane, la cantautrice che debutta in letteratura con grazia e stile svelto, sono pervasi da una tenace Ansia da felicità (come dice il titolo). Le protagoniste son donne di varia età, tutte intente a far di conto con l’inquietudine che le smuove dentro, con ciò che la società pretende, e soprattutto con ciò che gli uomini, schiavi del loro testosterone, non sono in grado né di capire né di offrire. E così, facendo perno più che sugli sviluppi d’una trama, su emozioni, risvegli difficili, cambi d’umore, locali, tic, addendi della vita postmoderna, i racconti disegnano una scanzonatissima cartografia dell’allegrezza, o quanto meno della serenità. Quant’essa sia precaria, tuttavia, lo dimostra Miranda, una che finalmente ha trovato un falegname che fa sesso con quella travolgente rudezza che ci si aspetta dai lavoratori veri. Sembra la soluzione alle malinconie, epperò, un giorno, durante una cena romantica, lui versa il vino nel bicchiere della Nutella (vacca boia!); mentre tenta di imboccarla, lei si tira indietro, facendo cadere il sugo sul vestito; va in bagno, trova un gagliardetto della Juve, un crocifisso, la foto di una vecchia zia, proprietaria della casa ricoverata da anni; infine, le lenzuola del talamo sono azzurre con nuvole stampate, stanche, che a toccarle avevano la consistenza di quelle del mare, da ragazzi, alla fine delle prime vacanze da soli… Si può rappresentare lo sbigottimento della delusione in maniera più lancinante? O la siderale distanza che ci separa dall’appagamento del nostro desiderio? Ovviamente no. Manco Artaud o Bukowski sarebbero così spietati. Eppure la voglia di scavallare la dittatura del kitsch, che ci sottomette con oggetti e speranze farlocche, è sempre fortissima. Grazie all’ironia, e a una irrefrenabile frenesia di vivere Ayane esorcizza il nostro più coriaceo scontento.
Che cos’è l’ansia da felicità?
«Un vago e potente senso di colpa verso qualsiasi tipo di soddisfazione. È molto radicato nella società cattolica e lo sento persino io che ho un padre musulmano e parte della famiglia ebrea. O ci dobbiamo pentire della gioia, o siamo preda dell’ansia di soddisfare canoni, di entrare in determinate caselle, di sentirci all’altezza. È quella maledizione del lieto fine con cui siamo cresciuti. Nelle favole è una regola, ma nella realtà è un bel viatico per l’infelicità».
E la felicità, invece?
«Mi pongo spesso la domanda. Sicuramente sono felice sul palco, completamente connessa con i musicisti, il pubblico. Però, indipendentemente dal contesto, la felicità è riuscire ad essere nel qui e ora».
Un principio molto zen.
«In effetti faccio yoga da due milioni di anni e meditazione zen. Mi rendo sempre più conto che la felicità è la capacità di assaporare l’istante. Cosa non facile. Ho cantato nei teatri più belli d’Italia e nei paesi più belli del mondo. Eppure spesso ero a cercare il dettaglio che potesse, non tanto rovinare l’esperienza, ma compromettere il mio stato di abbandono. Insomma anche la condizione più straordinaria può essere rovinata se non riesci a sganciarti dal senso del dovere, dal pentimento, dal rigore, dalla ossessione del perfezionismo.
Capita talvolta?
«Due settimane fa, durante un viaggio nella Guadalupe, mi sono ritrovata seduta su una grossa roccia in mezzo a un bosco dopo un’arrampicata. Ero grande come una foglia di banano, impercettibile rispetto alla grandezza della natura, però connessa, mi sentivo parte del disegno, indipendentemente dal fatto di essere il centro o un dettaglio insignificante. Era felicità».
Ha delle paure?
«Mi terrorizzano le blatte. E poi il vuoto. Non di cadere (anche se quando mi affaccio sui baratri non sto benissimo), ho paura del vuoto esistenziale. Di non usare bene il tempo che mi è stato concesso. E questo mi spinge a fare troppo in modo molto disordinato».
Beh, il contrario dello zen…
«Esatto. Per questo mi rifugio al tempio. Purtroppo la testa è ancora ballerina, e ho la capacità di concentrazione di un moscerino».
L’amore nei suoi racconti è spesso fonte di frustrazione.
«Durante il lockdown ho scritto una canzone, che i discografici non hanno apprezzato. Diceva "l’amore è una possibilità, non l’unica". Mi chiedo che senso ha pensare solo alla monogamia. Abbiamo intorno la palese dimostrazione che non funziona. Le coppie scoppiano. Ci sono quelli che si separano da dio, ma ne ho conosciuti pochi. Di solito avviene il contrario. Eppure se usciamo dagli schemi tradizionali della sfera affettiva stiamo male, ci portiamo dietro strascichi di dolore immensi. Perché non dedicarsi a un sano individualismo? Alla bellezza del vivere da soli. Vuoi mettere il piacere di fare la prima, lunghissima, pipì del mattino in un bagno che non usa nessun altro?».
Gli uomini dei suoi racconti sono abbastanza disastrosi. È solo fiction o lo pensa davvero?
«In effetti ho sciorinato un bel filotto di disadattati. Scherzi a parte, credo che i maschi abbiano un problema importante in questo momento storico in cui si è sviluppata l’autonomia femminile. Gli è stata giustamente tolta la responsabilità del patriarcato ma non gli è stata riconosciuta la possibilità di essere fragili. Non possono ancora piangere in pubblico. Vengono trattati come panda se portano i figli all’asilo. Non ti sentiresti un deficiente se ti dessero un premio perché hai cambiato un pannolino? Frastornati dalle accelerazioni della storia gli uomini oggi si dimostrano incapaci. Naturalmente parlo di ciò che ho visto, origliato, immaginato letterariamente rispetto al mio piccolo universo personale. Scorgo numerose "vittime" nel panorama maschile».
Non per insistere, però, nonostante le delusioni, le sue protagoniste non riescono a fare a meno degli uomini...
«Sperano di trovare qualcosa di meglio del precedente. O meglio, sperano di sapersi comportare, di saper essere una versione migliore di sé nella stessa situazione. Come il sognatore che non si arrende. È la solita ansia da felicità che riaffiora, legata a modelli culturali ben radicati. Persone libere, esploratrici o esploratori, ci sono sempre state, ma al pranzo di Natale prevalgono sempre le stesse domande, "Non ti fidanzi?", "Quando ti laurei?" "Sei proprio sicura di divorziare per la seconda volta?". Domandarsi se si è completi in uno stato di individualità sentimentale assoluta è ancora una cosa preziosa, per pochi. A mia figlia, invece, non frega nulla di avere relazioni. Le nuove generazioni sono affascinate da reti di contatti geograficamente sparpagliati. Si sentono liberi, indipendenti».
Una protagonista dice che avrebbe dovuto rendersi conto che il fidanzato era un pacco perché non gli piaceva Woody Allen. Lei ne ha prese fregature?
«Mi è capitato di uscire con un uomo bellissimo. Di quelli che li vedi e capisci il concetto di perfezione. A tavola gli ho chiesto, tipo test, se preferisse (Chet) Baker o (Miles) Davies. Lui ha risposto Boris Becker tutta la vita».
Com’è andata a finire?
«Ho preso un taxi». (risata)
E l’uomo ideale?
«Quello che sa ridere. E ti fa ridere. Sarà una grande banalità. Ma è così. È l’ironia che ci fa sopravvivere da millenni. Sto leggendo una meravigliosa antologia dello humor nero. C’è Swift che suggerisce di mangiare i bambini per risolvere il problema della povertà. Che dire? Uno che scrive ’ste genialate lo sopporti qualunque nefandezza combini...».
Purtroppo gli Swift sono rari .
«Beh, mi accontento anche dei dischi di Gainsbourg. Poi si apre il discorso che la perfezione non è degli umani. Vedi il tizio di cui parlavo prima. Il bidone c’è sempre, magari ben mimetizzato dietro gli addominali scolpiti».
I personaggi sono autobiografici?
«Nei monologhi ci sono molte cose del mio linguaggio quando non sono pubblica. In contesti protetti mi concedo al grezzo. Sbracare è un piacere enorme. Ritrovo piccole cose che possono essermi capitate o viste, ma in realtà non parlo di me. È così noioso parlare sempre di noi. Più interessante è far parlare persone che potremmo essere. Il bello della scrittura è far esistere eventuali versioni di sé».
Ad un certo punto compare un omaggio a "Ventimila leghe sotto i mari". È stato un libro della sua infanzia?
«No, di mia figlia. C’erano due versioni, quello semplificato e quello integrale. E io, naturalmente, da madre secchiona le ho comprato il secondo. E le i a 8 anni era distrutta dalla descrizione di Capitan Nemo dei pesci che vede, di quelli che vede solo di sfuggita, di quelli che non ha visto...».
Lei che cosa leggeva?
«Leggevo tantissimo. I classiconi. Salgari. Conrad. Piumini. Tamaro. Il primo vero choc fu Andersen, ho capito che il mondo era perfido, ma provavo anche attrazione per il disagio, per la parte brutta del Creato, che nella narrazione disneyana non veniva mai fuori. Mio padre mi ammazzava di film di Chaplin. Sono cresciuta con una cultura dell’amaro importante. Certo, Charlot, fa sorridere, ma quando vedi Il monello devi essere un pirla per non capire che c’è un peso dell’anima che ti schiaccia».
Com’era il mondo intorno?
«Sono nata nella periferia di Milano. Il classico "dormitorio" incastrato tra quartieri difficili. Solo il disagio, solo la bruttezza. Vedevi il tipo che torna a casa la sera da solo con il borsello che pesa 15 chili ed è l’ultimo paria del suo ufficio. Non c’era neanche la fascinazione del male, perché mancavano pure i criminali, che vivevano nei quartieri vicini».
Non c’era salvezza?
«Il vantaggio di quei palazzoni è che c’erano tanti cortili, giardini, alberi. L’infanzia era vita all’aria aperta. Correvi, ti rotolavi, arrampicavi sugli alberi, e ti mettevi nei guai».
A lei succedeva?
«Sì, eccome. E meno male. I guai aiutano la fantasia, servono alla felicità».
I genitori che lavoro facevano?
«Mio padre, commesso in un negozio di tessuti. Mia madre, la colf. Poi studiò per diventare infermiera e seguire i malati di Alzheimer».
La colonna sonora della sua infanzia?
«I grandi cori famosi, tipo We are the world. Gianna Nannini. Nina Hagen. I genitori ascoltavano bella musica, se fosse stata brutta la mia vita sarebbe stata diversa. Papà, essendo cresciuto in Marocco, ascoltava rock anni 70, King Crimson, Eagles; mia madre Zucchero, il Concato superispirato, Baglioni, Renato Zero. Quando andavamo in vacanza e viaggiavamo 5mila km con una golf caricata all’inverosimile, come solo i marocchini sanno caricare, se non avessimo avuto la musica saremmo morti. La musica è tutto, aiuta a sopravvivere. Senza alberi, fantasia, canzoni, come fai ad arrivare ai vent’anni?».
Altri aiutini?
«Il cinema, senz’altro. Sedermi nella sala buia e farmi plasmare da un film è felicità pura. Mi ricordo che nelle medie vidi Il senso della vita dei Monty Python. Impazzita. Quell’ironia feroce spiegava il mondo. Sai che sei destinato ad essere un medio basso; se riesci a emanciparti un po’ sei fortunato; se vai oltre sei un miracolato. Insomma, c’era un’unica certezza: comunque andrà, sarà un disastro. Ma se ti sganasci di risate sei a posto».
In casa sua, comunque, circolava parecchia cultura...
«C’era anche l’apporto fondamentale delle zie. Preoccupatissime che io e mia sorella fossimo figlie di un immigrato, s’erano messe in testa di salvarci. Ci caricavano di libri "importanti", perché temevano che non ci inserissimo in società con dignità. A nove anni mi regalarono Il signore delle mosche e Lo straniero di Camus».
Nei suoi racconti cita con ammirazione "La ritournelle" di Sébastien Tellier. Anzi, ne fa addirittura l’esegesi. Come mai?
«È un brano con un’armonia che tira per i capelli, ti prende i ricordi e la nostalgia in fondo al cuore. È perfetta per il giovedì pomeriggio».
Cos’ha di particolare?
«È il giorno più malinconico della settimana».
Ah sì? Non era il sabato di Leopardi?
«No, giovedì. L’ho sempre sentito, ma quando ho letto La Ballata del mare salato di Hugo Pratt, da ragazzina, ho trovato verbalizzata questa sensazione. Il primo crepuscolo del giovedì, specie d’autunno, può essere straziante. Il brano di Tellier sorprende perché prende per distrazione. Ti strugge senza portarti a fondo. Permette di strizzare l’ansia da felicità, senza però buttarti nel baratro. Come le montagne russe. Senti che c’è il vuoto ma sai che non ti succede niente».
Lei è malinconica?
«Sì un botto. Ma sono anche una delle persone più ottimiste che conosco, "prese bene", per dirla scientificamente. Sono un cucciolo di Sehnsucht, quella meravigliosa parola tedesca che esprime il desiderio struggente di un bene irraggiungibile. Una portatrice sana di malinconia».
Che differenza c’è tra scrivere racconti e canzoni?
«Quando scrivi una canzone hai un tempo che ti dai. Individuati gli elementi che servono a far capire all’ascoltatore ciò di cui stai parlando, puoi aggiungere dettagli all’infinito. In un racconto, invece, bisogna trovare una soluzione. Andare da qualche parte».
Quando ha capito che cosa voleva fare nella vita?
«A quattordici anni decisi che sarei diventata una cantante, senza avere idea di che cosa significasse. Sapevo solo che volevo migliorare me stessa. Il mio maestro di canto alla Scala diceva che è una grande forma di vanità ambire a essere migliori di ciò che si è. Forse aveva ragione».
È vanitosa?
«Diciamo che odio la sciatteria. E sono severa. In tutto. Da come mi vesto ai lavori di musicista. Se sento la gente che applaude alla fine di un concerto non basta. Mi faccio le pulci, riguardo la performance e annoto tutto quello che avrei potuto fare diversamente. Ma contemporaneamente se l’alternativa è stare in casa chiusi otto ore a studiare come migliorare, oppure andare in un posto mai visto, vado a vedere il posto che non ho mai visto. Quindi: severa sì, ma consapevole che sono piccola come una foglia di banano».
Essere famosi dà felicità?
«Sarebbe ipocrita negarlo. Comporta però anche ansie. Un passo importante verso la felicità, tuttavia, è rendersi conto che l’aspirazione all’eccezionalità è una chimera. Siamo convinti di essere unici e particolari, in realtà siamo cliché che camminano. Siamo tutti di una banalità inaudita. Più ordinari delle formiche, loro almeno sanno qual è il loro ruolo nel formicaio».