Tuttolibri, 13 maggio 2023
Manzoni voleva essere impostore, erotomane, spadaccino
In tarda età Manzoni raccontò a uno dei suoi biografi un sogno ricorrente. Si trovava a tavola con un gruppo di amici e aveva al fianco Enrichetta Blondel, la prima amatissima moglie. D’improvviso entra uno sconosciuto che gli punta il dito accusando «lei, Manzoni, è un impostore»; stupito Manzoni si rivolge alla moglie dicendo «tu che mi conosci bene, difendimi» e Enrichetta esitando risponde «io non ho mai voluto dirtelo ma visto che ora se ne sta parlando ebbene sì, Alessandro, credo che tu sia un impostore». La prima spiegazione del sogno è la più semplice e riguarda l’ambiguo rapporto di Manzoni col cattolicesimo ufficiale; ha tenuto per anni un volume di Voltaire nel cassetto del comodino di nascosto al proprio confessore, la sua morale era giansenista, Enrichetta si stava convertendo al cattolicesimo dal protestantesimo proprio quando avvenne il «miracolo di San Rocco» (durante i festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone, Manzoni si sarebbe rifugiato nella chiesa parigina di Saint-Roch per un attacco della sua agorafobia, sconvolto per aver smarrito Enrichetta tra la folla; lì si sarebbe convertito e appena uscito dalla chiesa avrebbe ritrovato la moglie).
Per me questo scrupolo manzoniano di sentirsi un impostore ha sempre avuto una risonanza più vasta, che riguarda proprio il suo rapporto col romanzo. Leggendo il saggio del 1850 dedicato ai «componimenti misti di storia e d’invenzione», non sono mai riuscito a sottrarmi all’idea che l’obiettivo polemico non fosse soltanto il "romanzo storico" come genere letterario – certo, dimostrare l’impossibilità teorica del libro che gli aveva dato la gloria già non è poco; ma quel senso tenace di colpa, più che di autocritica, che percorre il saggio mi è sempre parso che si riferisse al fatto stesso di inventare storie, insomma in ultima analisi di far appassionare il lettore a un cumulo di menzogne. Quando scrive l’addio ai monti per conto di Lucia, si rende conto che è troppo alto e lirico per una filatrice analfabeta e ci tiene a precisare «di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia»; Ariosto si divertiva alle proprie «corbellerie», Manzoni se ne fa un problema. È questo senso di colpa che sta alla base, credo, dell’anomalia più evidente nel percorso di scrittura manzoniano: che uno scrittore col suo talento, con la sua conoscenza del romanzo europeo, abbia scritto un solo romanzo, e non almeno quattro o cinque come tutti gli altri europei di pari livello, resta uno scandalo – e non basta a giustificarlo il sospetto (fino alla vergogna) che in Italia ancora gravava sul genere, o l’esempio supremo della Commedia dantesca, con la sua missione di fondare (nel caso di Manzoni, consolidare) una lingua nazionale insieme all’opera di fantasia.
Se uno solo dev’essere il romanzo, allora questo romanzo deve contenere tutto: il punto politico sulla contemporaneità, le nevrosi personali, l’antropologia della Nazione, il riassunto dei generi dal melodramma alla tragedia passando per la commedia, un’enciclopedia della letteratura, personaggi che incarnino ciascuno un pezzetto del loro autore. Dev’essere un monumento e insieme una prigione. Se non verranno altri romanzi a correggere o disciplinare il tiro, quello in fattura deve assumersi la responsabilità di ciò che è definitivo; come se la patina, o l’aura, del classico (invece che agglutinarsi col tempo) dovesse concrescere insieme al testo. Vent’anni ci ha lavorato. I miei Promessi sposi cominciano col Fermo e Lucia e finiscono con la Storia della colonna infame (che Manzoni avrebbe voluto fosse sempre stampata in coda al romanzo, come spietata correzione al lieto fine). Il Fermo è in pieno un romanzo europeo dell’epoca, con ingenuità ed esagerazioni: c’è il romanzo gotico nella vecchia serva dell’Innominato, c’è una premonizione di Dostoevskij nella storia di Gertrude quando ammazza la conversa e di Charlotte Bronte quando chiede a Lucia se il cavaliere che la molestava fosse poi davvero così brutto. C’è Hugo in don Rodrigo che fugge a cavallo verso la morte, e Dickens nella malinconia di Gertrude per la propria mancata maternità.
Nei Promessi usciti nel 1840 tutto è stato moderato, armonizzato, reso eterno («la sventurata rispose»). Nei tumulti per il pane c’è sì il ricordo del ministro Prina linciato dalla folla sotto i suoi occhi nel 1814, l’intera peste è metafora della Rivoluzione Francese, la cerimonialità spagnolesca del Potere allude a un carattere italico perenne, il latinorum ci perseguita ancora, la vigliaccheria di don Abbondio è la sua, sappiamo dalla biografia che fu lui da giovane a rivolgere «chiacchiere non punto belle» a una povera operaia. C’è la vita: intensa, stratificata, contraddittoria – ma come felpata o congelata da una dose forte di autorepressione. La morale cattolica e la morale sessuale; più il bisogno di risciacquare i panni in Arno, i «cornetti» milanesi che diventano dei toscani «fagiolini». E i fagiolini hanno vinto, nei programmi del liceo l’autorepressione è diventata castrazione mummificante. Nessuno si ricorda più del formicolìo che circolava sottopelle: di un autore che avrebbe voluto essere erotomane, spadaccino, mistico, pantofolaio, storico, sociologo, linguista, patriota. Impostore.
In fondo alla strada dove abito c’è il Cimitero Monumentale di Milano; lì, nel Famedio, Manzoni riposa in una semplice tomba neoclassica, grigia su un parallelepipedo più scuro. C’è quasi sempre silenzio, rari turisti scattano foto, la luce dalle vetrate è bianca. D’estate mi capita di andarlo a trovare, nel silenzio e nella solitudine. Mi tornano in mente le parole che Isaia Ascoli usò per definire la sua scrittura, «una mano che pare non avere nervi». Proprio lui, nevrotico forse più di Leopardi. E penso che in fondo, anche se ne scriviamo molti, i nostri romanzi si possono riassumere in uno solo: quello che ci contiene a nostro dispetto, l’opera da cui non possiamo scappare.