Tuttolibri, 13 maggio 2023
Intervista a Erri De Luca
Lasci cadere 41 bastoncini colorati sul tavolo e poi ne togli uno o due o tre per volta, senza muovere gli altri, altrimenti perdi il turno. È un tentativo di rintracciare l’intelligenza del caso: è lo Shangai, il gioco che Erri De Luca non ha mai saputo giocare e che dà il titolo al suo nuovo libro, Le regole dello Shangai, il settantunesimo, senza considerare quattro raccolte di poesie. In copertina c’è una mappa chiromantica disegnata su una mano: la protagonista è una gitana, sa leggere le linee della vita sui palmi, è una delle prime cose che fa quando incontra l’altro protagonista, un anziano orologiaio che sta campeggiando tra i boschi, in una zona di confine. Lei scappa da un matrimonio combinato, lui da niente. Non hanno un nome, De Luca scrive nelle prime pagine il perché: «I nomi non aggiungono niente alle persone. Anzi, tolgono: se chiamo Federico il personaggio, ecco che chi legge lo associa a una persona che ha lo stesso nome. Questo abbinamento non aggiunge, toglie. Nessuno somiglia a qualcun altro, qualcuno cerca l’impossibile imitazione di un suo modello, impegno per me incomprensibile». Hanno età molto diverse, storie molto diverse, sono due stranieri che si danno accoglienza, fiducia, compagnia e futuro. E quando sono distanti l’uno dall’altra, quando pensano di essersi persi di vista, uniscono i loro destini.
De Luca, ha scritto un libro sull’incontrarsi e sul conoscersi. Perché?
«È il tema principale dell’esistenza imbattersi in qualcuno, senza appuntamenti e nelle turbolenze. Si presta a narrazione».
È davvero possibile conoscere gli altri?
«Gli altri possono farci conoscere chi siamo. Di fronte allo sconosciuto impariamo qualcosa su di noi. E così è pure per l’altro, reciprocamente».
Per buona parte della storia, i protagonisti non sanno la verità l’uno dell’altra eppure sono vicinissimi: è solo in uno spazio di omissione che siamo autentici?
«Capire non serve a niente, ho letto in un romanzo. C’è un margine ampio di fraintendimento, di segreto che protegge il rapporto, anche il più stretto».
Come faremmo a riconoscerci senza i nomi?
«Utili all’anagrafe, ai documenti, i nomi propri in una storia sono invenzioni per me insignificanti. Nella scrittura sacra è interessante sapere che Adàm viene da adamà, terra; nei Promessi Sposi il nome Renzo Tramaglino non spiega niente. In questo racconto i personaggi sono solo due, nessuna possibilità di confonderli».
Siamo tutti uguali o tutti diversi?
«Siamo tutti uguali di fronte al mondo, l’uguaglianza è fondamento della convivenza. Presi individualmente siamo invece diversi. L’uguaglianza non cancella le diversità: permette loro di approfondirsi».
Cos’è l’identità?
«L’identità è scritta sui documenti, sui titoli di viaggio. Si porta in giro una identità ma non si coincide con quella. Io mi chiamo Erri De Luca, non sono Erri De Luca. Quello che io sono è un catalogo in via di aggiornamento».
L’appartenenza può sostituire l’identità?
«Ho appartenuto a una città di nascita, a una famiglia, a un ceto. Poi mi sono scrollato di dosso queste appartenenze e ho invece appartenuto a una gioventù politica insubordinata. Delle sue ragioni di allora resto ancora convinto, anche se sbaragliata, estinta».
La protagonista di "Le regole dello Shangai" è gitana. Perché il razzismo verso gli zingari è sempre tollerato?
«Perché i gitani vivono al di fuori delle usanze dei popoli. Evitano residenze, si uniscono tra di loro, hanno loro leggi. Sono avvertiti come estranei e, per diceria, temuti. Non hanno un esercito, hanno subìto tutte le guerre, non rivendicano diritti di autore ma hanno suggerito musica ai grandi compositori del mondo».
Perché il protagonista fa l’orologiaio?
«È capitato per caso quel mestiere, proseguito poi perché adatto alla sua manualità. Così come per caso incontra il gioco dello Shangai, accorgendosi poi che le sue regole si adattano al più vasto insieme dell’esistenza».
L’orologiaio compie un gesto di grande amore per la ragazza gitana, anche se lo chiama un gesto di responsabilità. La responsabilità è una forma d’amore?
«Il senso di responsabilità tiene insieme una società e quando manca c’è disgregazione. Qui è più di un senso, è un sentimento che si manifesta all’improvviso, che si prende cura e che non c’entra con l’amore. In me si verificano entrambi, sia un senso che un sentimento di responsabilità. In una storia che scrivo mi sento responsabile del tempo di chi la leggerà e cerco di non sprecarlo».
Scrive che l’essere vecchi è il momento in cui tutti ti parlano e infilano la parola «ancora»: stai «ancora» lavorando, stai «ancora» andando al mare.
«Per me invecchiare è un esperimento, nessuna vecchiaia precedente può farmi da modello. La invento, la incalzo fisicamente con allenamenti, osservando effetti di cambio alimentare. Insomma mi inoltro in un’età sconosciuta e impegnativa».
Vecchi, nomadi, soli: saranno così gli uomini del futuro?
«Credo nell’alleanza tra giovanissimi e anziani, saltando gli adulti e la loro fallimentare gestione della vita pubblica. Il conto delle età è una contabilità che non riguarda gli individui. Mi rivolgo a un neonato e a un centenario con lo stesso tono di voce, siamo coetanei, vivi nello stesso momento».
E allora perché ci preoccupa tanto che ci siano più vecchi che giovani?
«Mi dispiace, senza spaventarmi, che non ci sia spinta al ricambio, che si restringa la natalità, che nascano meno bambini».
Cosa pensa del fatto che le donne fanno sempre meno figli?
«Non posso saperlo. Escludo che sia un fatto economico, o se questa è la spiegazione la considero un pretesto».
Il futuro del mondo la impensierisce?
«Se sopravviverà a una delle varie estinzioni che sta lasciando correre e dunque apparecchiando, sì, l’umanità sarà poca, vagabonda, pacifica come quella che costruiva la torre di Babele».
E il suo futuro?
«Smette ogni giorno al tramonto».
Nel libro è assente la paura della morte.
«Devo essermela persa da qualche parte, sono abbastanza distratto».
Chi è lo straniero e perché lo temiamo?
«Non temo lo straniero, mi aspetto casomai ostilità da qualche connazionale. Ma se uno ha proprio paura di uno straniero, non turista, basta frequentarlo e passa».
Cos’è la radicalità?
«Qualcosa che attiene alla radice. Nel caso dei cosiddetti radicalismi religiosi, penso al contrario che siano dei superficialismi che ignorano o fraintendono i fondamenti del loro credo».
Pensa ancora che gli ucraini vadano sostenuti?
«Da marzo dell’anno scorso porto in Ucraina con un furgone aiuto ai rifugiati, dandomi il cambio alla guida con l’amico Giacinto. Sto partendo per il mio dodicesimo viaggio. Credo nel sostegno europeo a una nazione europea invasa. Credo nell’importanza delle gocce, come quella che portiamo noi».
Una volta ha scritto: "L’espressione non esistono parole per… è sbagliata. Esistono parole per". Il Covid e la guerra le hanno fatto cambiare idea?
«Certamente no, so da lettore che ci sono parole, espressioni per raccontare quello che neanche potevo immaginare prima di trovarlo scritto. La vita non solo è descrivibile grazie alle parole, ma ne riceve anche una più alta definizione».
Le viene in mente qualcosa che aggiungerebbe alla sua poesia "Considero valore"?
«No, ma so che è servita da suggerimento per insegnanti che hanno proposto agli allievi di scrivere un loro elenco personale».
Qual è la cosa più importante della sua vita?
«Per ora, esserci».
Cosa la commuove?
«Quasi tutto, anche un film».
Si è mai sentito cattivo?
«Mi sono sentito sbagliato».
C’è qualcosa in cui prima credeva molto e che adesso la stanca al solo pensiero?
«Credevo di poter salire un Ottomila, ci ho provato, oggi mi stanca il solo pensiero».
Qual è la prima cosa che la colpisce in una donna?
«Le mani»
Riconosce in lei atteggiamenti patriarcali?
«Non essendo padre non ho potuto sperimentare il sentimento patriarcale. La scrittura sacra mette la donna a perfezionamento del prototipo Adàm. La divinità gliela estrae dal fianco e il verbo successivo dice: "E costruì". Cioè dal semilavorato Adàm la divinità procede a elaborazione di un risultato migliore».
Siamo fatti più di natura o più di cultura?
«Necessariamente natura, snaturata».
Crede che lo scrittore debba essere a disagio, quando scrive?
«Per me è un tempo festivo della mia giornata, sia leggere che scrivere. Non mi costa fatica, anzi mi entusiasma».
Che fa quando non scrive?
«Faccende varie di chi abita in campagna».
Le capita di odiare?
«No, è uno spreco di energie».
Ha festeggiato lo scudetto del Napoli?
«Con una bottiglia di vino».