Il Messaggero, 13 maggio 2023
Gabriele Mayer, il costumista delle star
Gli abiti dai volumi inusitati, architettonici, indossati da Mina per Carosello. Il vestito arcobaleno di Raffaella Carrà nella sigla di Pronto Raffaella?. E quello, micro, con profonda scollatura sulla schiena e la faccia di Topolino a coprire i fianchi, che Heather Parisi rese iconico a Fantastico, cantando Crilù. I costumi di scena di Renato Zero. Poi, i grandi "guardaroba" per il cinema, da L’Armata Brancaleone di Monicelli a Marie Antoniette di Coppola e oltre. È un viaggio nella storia dello stile e del suo immaginario ad essere proposto nella mostra Gabriele Mayer, la misura dell’invenzione. Arte e mestiere di un sarto costumista, a cura di Lucia Masina con lo stesso Mayer inaugurata a Roma alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dove sarà visitabile fino al 18 giugno.
IL PERCORSO
Nell’iter, decine di costumi, nonché 150 foto e oltre 250 bozzetti, in una selezione dall’Archivio Mayer alla Galleria Nazionale, oggi digitalizzato a seguito della donazione di Mayer nel 2020. Un viaggio nel costume, con la maiuscola dello sguardo sulla vita del Paese, e non solo tra i costumi, anche se sono proprio questi ultimi a farsi elemento chiave della narrazione. «Il percorso mostra le grandissime potenzialità di una sartoria teatrale, ponendo una accanto all’altra lavorazioni diverse, dall’uso del metallo ad elementi plastici, fino ai ricami», sottolinea Masina, che al lavoro del costumista ha dedicato anche il libro Gabriele Mayer. Una vita di costumi (De Luca). «Mayer è diventato noto al grande pubblico, quando il suo nome è apparso come firma dei costumi di Raffaella Carrà, che lo voleva sempre per le sue trasmissioni televisive. In mostra, però, c’è volutamente solo uno di quegli abiti per far vedere le tante altre cose fatte». Creazione dopo creazione, tra quelle realizzate come sarto e quelle ideate come costumista, l’universo di Mayer si fa specchio e racconto di molte "fantasie", che hanno contribuito a comporre il patrimonio iconografico del Paese.
LA SCELTA
Sì, perché Mayer, nel mondo della sartoria, è cresciuto fin da bambino, osservando il padre e la madre. «A 19 anni, quando mio padre è morto, dovevo scegliere se continuare gli studi di architettura o portare avanti la sartoria teatrale racconta Mayer, classe 1940 - ma quest’ultima mi aveva già conquistato. È in sartoria, di fatto, che sono nato». E così, dagli anni Sessanta, ha lasciato il suo segno in moltissime produzioni cinematografiche, teatrali e televisive. Ecco allora la seduzione dirompente ma anche malinconica dell’abito per Polvere di stelle, indossato da Monica Vitti. Ed ecco i pizzi originali per Sophia Loren in Francesca e Nunziata, a fare del tempo passato un accessorio di gusto e, di nuovo, un elemento narrativo, con interessanti sfumature d’uso. Negli anni, Mayer ha lavorato al fianco di più costumisti, come Milena Canonero, Giulio Coltellacci, Elio Costanzi, Piero Gherardi, Odette Nicoletti e altri. E, come costumista, ha collaborato con registi come Luca Ronconi e Walter Le Moli. Ha vestito Milva, Mina, Lorella Cuccarini, Renato Zero e tanti ancora.
«Ho iniziato con La Ciociara di De Sica e Viva l’Italia! di Rossellini prosegue I legami che più mi hanno emozionato sono stati quelli con Sophia Loren, Mariangela Melato, Vittorio Gassman. E, ovviamente, Raffaella Carrà, con cui c’era un forte dialogo, che andava dal caffè a come si preparava una ricetta. Tutti questi rapporti nascevano dal lavoro sui costumi, studiati sul corpo degli interpreti per controllare piccole alterazioni che davanti all’obiettivo sarebbero diventate molto più evidenti. Erano collaborazioni quasi intime, fatte di complicità e scambio».
L’ARCHIVIO
Esposto anche materiale d’archivio dagli anni Trenta, dalla raccolta del padre, a raccontare l’evoluzione del settore. E dello sguardo. «Il mondo dei costumi è cambiato commenta Mayer un tempo, c’era un’accortezza che ora, anche per una questione di ore, non è più possibile permettersi. Bisognerà trovare nuove formule. Da ragazzo, andavo a Londra perché si trovavano cose che in Italia non c’erano. Adesso, si può andare in tutto il mondo, ma ciò che si trova è uguale ovunque. Si è perso il valore di vestirsi come uno si sente». Si è dimenticato il valore dell’abito come "narrazione". «Oggi lavoro con le Accademie e con la sartoria theOne. È la passione che mi spinge. Da sempre».