Robinson, 13 maggio 2023
Biografia di Roberto Andò raccontata da lui stesso
La precoce perdita del padre, una sorella malata, una madre fortissima. Il rapporto con Palermo, “ città morta” capace di accendere le sue fantasie. L’amicizia con Sciascia e i fantasmi di Tomasi di Lampedusa. Confessioni del cineasta, vincitore del David
Forse alla fine il dolore e la gioia sono semplici opinioni. Indoviniamo che dietro ci sono esistenze in carne e ossa che si raccontano porgendo una verità che è soltanto loro.
Dopotutto è questo che cerchiamo in una storia, il bisogno di andare a fondo. Quando il fondo, si sa, resta una sostanza imperscrutabile. Con Roberto Andò, fresco vincitore di 4 statuette (scenografia, costumi, sceneggiatura originale e produzione) del David di Donatello per il suo lungometraggio La stranezza, avremmo dovuto vederci qualche settimana fa. Poi è tornato di corsa a Palermo, la città dove è nato, per l’aggravarsi delle condizioni di salute della madre. Una donna, dice, straordinaria. Compare nel bel libro (scritto con Salvatore Ferlita), dove oltre alle tante cose che apprendiamo di lui, notiamo una certa reticenza voluta, come se andare a fondo della propria vita significasse esporla a sguardi indiscreti.
Già dal titolo del libro, “Il piacere di essere un altro” (edito da La nave di Teseo) sembra che tu voglia vivere vite che non siano la tua. Dai l’impressione di parlare di te solo attraverso dei filtri. Siano i libri, i film, le prove teatrali. Cos’è pudore, paura o cosa?
«Nel pudore di raccontarmi ho sempre cercato di tenere fuori le sofferenze della vita. Farne la lingua muta della mia reticenza. E ora so che dovrei tentare di parlarti del dolore che mi provoca una persona che mi è vicina, una sorella che vive nella bipolarità e nella depressione. E non è facile perché non si vuole scadere nel patetico, perché il privato è quell’area dove pochi sono ammessi».
Eppure ne avverti il bisogno.
«Credo che mi faccia bene e faccia bene sapere cosa passa una famiglia di fronte a certe forme diciamo di fragilità mentale, il contagio che subisce, il dramma di certe situazioni, la pena infinita. Per lungo tempo ho ritenuto che fosse una stonatura parlarne.
Sapendo, oltretutto, che una delle ragioni per cui sono rimasto a lungo a Palermo è stata quella di essere vicino alla mia famiglia. E tutto quello che ho fatto nella scrittura come nel cinema era anche per schermare il dolore».
Schermare è una forma di protezione ma anche un modo per raccontarti?
«Penso di sì, penso che in alcuni film che ho fatto, nei libri che ho scritto ci sia impresso il valore della reticenza».
La definiresti un valore?
«Non dimenticare che provengo dalla cultura siciliana e la reticenza lì è anche un codice di comportamento. Ha più a che fare con il non detto che con il detto».
Ciò che resta implicito, ciò che non si riesce o non si vuole comunicare, che effetti ha avuto su di te?
«Nella Palermo dove ho vissuto a lungo ero molto solo. E quando ho sentito tutta la precarietà della solitudine sono andato a cercare dei maestri. Il più importante è stato Leonardo Sciascia. Una delle prime cose che mi disse fu: dobbiamo sempre tenere delle candele accese, rischiarare quella vasta frangia di oscurità del non detto. Era il suo apporto illuministico alla cultura e alla vita civile».
Ma tu sei sicuro che Sciascia avesse davvero risolto il rapporto con le zone buie della vita civile?
«Risolte credo proprio di no. Una caratteristica della
vita siciliana è che tutto alla fine resta in sospeso».
Il famoso fatalismo.
«Direi più la rassegnazione, che però non era assolutamente una prerogativa di Sciascia. Quello che lo ha sempre contraddistinto è stato una scrittura limpida, chiara, trasparente applicata a una materia decisamente oscura. Era il suo rapporto con il mistero che la parola doveva, per così dire, far risalire dalle profondità insondabili alla superficie».
In fondo anche la sua predilezione per il “giallo”, aveva questa connotazione.
«La struttura stessa dell’enigma metteva in moto la sua curiosità. Ma non era un passatempo, bensì il bisogno di misurarsi con una terra, la Sicilia, che predilige più l’implicito all’esplicito, l’enigma alla soluzione».
Si torna al dire e al non dire. Alla reticenza.
«Mi rendo conto di non avere più bisogno di schermi protettivi».
Questa maturazione o cambio di atteggiamento a cosa è dovuto?
«So di essere entrato in una stagione diversa della vita. È da un po’ che avvertivo questa urgenza. Il mio primo filtro è stato il libro. Ho cominciato a leggere prestissimo. E so che attraverso quel gesto del leggere sublimavo il mondo. E ora sento che di quella vita vissuta indirettamente, che mi è stata a lungo congeniale, c’è molto meno. Sono approdato a una leggerezza che è come una patria nuova, con nuovi desideri e nuove conquiste».
In fondo stai dicendo che hai un rapporto con il mondo meno intellettuale.
«Non mi voglio nascondere dietro delle astrazioni. In fondo il mio ultimo film, La stranezza, dedicato a Luigi Pirandello, dà conto di questa maniera più leggera di guardare le cose».
Anche la leggerezza può diventare uno schermo.
«Forse sì, ma intanto mi ha permesso di disfarmi del bagaglio precedente. Più che un punto di passaggio vedo la leggerezza come un punto di arrivo».
Questo nuovo approdo spiega secondo te il successo che il film ha avuto?
«Credo abbia contribuito. Ma tu mi chiedevi quando questa svolta è maturata. Ebbene, risalendo indietro nel tempo c’è effettivamente un episodio significativo. Allora non gli attribuii il valore di una rinascita, ma oggi so che fu così».
Prova a riassumerlo.
«Fu un pomeriggio trascorso a casa di Bernardo Bertolucci. Dovevamo vedere alcune cose di lavoro.
E a un certo punto cominciammo a chiacchierare liberamente. Venne sera. Bernardo mi chiese se poteva non accendere la luce. A quel punto scattò una specie di gioco dell’intimità. Cominciai a parlare di cose molto personali. Più io parlavo e più lui mi incalzava. E poi, ormai immersi completamente nel buio, sentii dirgli: sei a una svolta. Percepisco la tua sofferenza perché è una condizione che ho vissuto anch’io. Gli chiesi in che senso, pensando al fatto che da anni era su di una sedia a rotelle e invece la sua sofferenza era di tutt’altro tipo».
Da dove gli arrivava?
«Mi disse che qualcosa di così acuto da agitarlo per settimane gli accadde dopo l’insuccesso diPartner,uno dei suoi primi film. Confessò che per risolvere in qualche modo il problema si rivolse al suo psicoanalista. Il quale alla fine della seduta gli disse: “ma se lei non ama il pubblico perché il pubblico dovrebbe amarla?”. Questa frase non c’entrava niente con quello che io avevo provato e raccontato fino a quel momento. Ma al tempo stesso mi ha fatto pensare a quanto sia importante amare le cose che sifanno e le persone alle quali le destini».
Amare quello che si fa non è un privilegio per pochi?
«Meno di quanto si pensi. Anche se è chiaro che alcuni mestieri rendono questo privilegio più facile».
Il cinema è uno di questi?
«Sì, ma per riuscire devi spogliarti dell’eccesso di introspezione, del compiacimento mentale e alla fine di quel narcisismo estetico che ti impedisce di amare il tuo pubblico. Se tu non lo ami perché dovrebbe amarti?».
Perché hai scelto di fare cinema?
«I film insieme ai libri erano i miei oggetti del desiderio. Ho cominciato a fare cinema con Francesco Rosi. Ero ssistente per il suo Cristo si è fermato a Eboli. Ero abbastanza spaesato sul set. E fu dura. L’ultimo giorno delle riprese Rosi mi disse: ora sei uno di noi. Da quel momento è partita la mia vicenda con il cinema. Assistente di Federico Fellini e poi di Francis Ford Coppola e di Michael Cimino.
Ho fatto regie teatrali, scritto testi, sono tornato al cinema con film miei e poi ho raccontato storie. Ho fatto convivere cinema, teatro, letteratura. In quegli anni, il mio sembrava l’atteggiamento di un indeciso. Fu Sciascia a togliermi dal dubbio».
Come ti convinse?
«Disse: perché devi scegliere? Fai cose diverse purché siano cose in cui credi. Mi sentii rassicurato, legittimato. Aveva il mito del dilettante e lui è stato un meraviglioso dilettante».
Una leggenda molto siciliana fu Lucio Piccolo. So che volevi fare un film su di lui.
«Era nelle mie intenzioni, oltretutto con la collaborazione di Sciascia e Vincenzo Consolo. A un certo punto anche Andrea Camilleri si interessò al progetto, manifestando il desiderio di partecipare alla sceneggiatura».
Con nomi del genere cosa non ha funzionato?
«La Rai, che in un primo momento era disponibile, si tirò indietro. Non ho mai saputo perché».
Tu Lucio Piccolo lo avevi conosciuto?
«No. Me ne aveva parlato la prima volta Sciascia.
Erano talmente belle le sueconsiderazioni che cercai di metterne a fuoco la figura, davvero straordinaria».
Era il cugino di Tomasi di Lampedusa.
«Il loro legame andava al di là delle parentele.
Furono due anime artistiche la cui grandezza, a lungo misconosciuta, si coglieva nel modo in cui restituirono lo spirito della Sicilia. Del Gattopardoormai sappiamo tutto, ma dei versi di Lucio Piccolo no. È stato il poeta che ha saputo ascoltare il cuore di Palermo. Come un Kavafis siciliano».
Tu girasti un film sull’autore del Gattopardo.
«EraIl manoscritto del principe, la mia seconda regia. Una specie di educazione sentimentale nella Sicilia degli anni Cinquanta. Pensa che affidai il ruolo di Lucio Piccolo a Leopoldo Trieste».
Entrambi avevano una faccia stralunata.
«Soprattutto Piccolo era di un’aristocratica bruttezza, di lui Sciascia disse che era la persona più notevole che avesse mai conosciuto».
Parli di Sciascia come di un padre. Invece quello vero?
«Mio padre era primario ortopedico. Avrebbe voluto fare altro nella vita. Ma seguì le orme di mio nonno, anche lui medico e figura di spicco del partito comunista siciliano. Morì giovane, beatamente, ascoltando l’Offerta musicale di Bach.
Mia madre invece è morta a 95 anni, poche settimane fa. Fino all’ultimo si è presa cura di mia sorella. La tormentava il dopo, cosa sarebbe accaduto quando non ci fosse stata più. Si è presa il dolore su di sé e l’ha sopportato con forza e dignità. Quando morì il fratello, Franco Indovina, nell’incidente aereo di Punta Raisi, dove perirono 115 persone, mia madre cadde in una depressione profonda».
Era il 1972 mi pare.
«Avevo 13 anni ed ebbi la netta sensazione, nonché il terrore di perderla. La vedevo lontana da me.
Assente. E fu così per mesi. Spesso riversa nel letto con sul comodino, inspiegabilmente, un libro del teologo Karl Rahner. Non so cosa trovasse in quelle pagine di meditazione. Forse un appiglio spirituale. Una ragione per vivere. Quello che ricordo, quando un giorno aprii il libro, fu scorgere impresse sulle pagine le sue lacrime. Immaginai il suo dolore. Fu da quel momento, credo, che lo fece suo».
Sei andato via da Palermo agli inizi del Duemila.
Perché?
«Forse per non essere travolto o contagiato da quel dolore familiare così acuto da essere a volte lancinante. Ho lasciato Palermo insieme a mia moglie Lia e a mia figlia Giulia».
Una fuga?
«No, ma la necessaria distanza da un luogo certamente straordinario ma anche difficile».
Nel “Diario senza date”, il tuo primo scritto in forma di romanzo, all’inizio scrivi: “Sono nato e sono cresciuto in una città morta”.
«Una morte che ha portato all’incuria e al lamento. Ma ha anche acceso le mie fantasie. Ho pensato e agito anche per reazione a questo stato dove la malattia è incurabile e il Male considerato una risorsa, un’occasione non per redimersi ma per realizzare affari».