Robinson, 13 maggio 2023
Intervista a Peter Cameron
A New York, dove lo abbiamo incontrato qualche giorno fa, Peter Cameron ci capita ormai di rado.
Trascorre gran parte del suo tempo in Vermont, a leggere libri.
«Interagisco e convivo ogni giorno con gli animali e meno frequentemente con gli esseri umani. Bevo vino, birra o un cocktail tutti i giorni. Soffro di insonnia, cosa che mi preoccupa perché trovo che dormire e sognare siano di grande conforto, e possono passare anni in cui non scrivo» ci ha confessato. Lo scrittore, celebre per aver pubblicato un longseller come Un giorno questo dolore ti sarà utile — riscoperto da giovani lettrici e lettori e rilanciato su TikTok —, ritorna in libreria con una serie di racconti scritti tempo fa,Che cosa fa la gente tutto il giorno?, e quasi del tutto inediti in Italia (li pubblica come sempre Adelphi). «Stare in Vermont — prosegue — mi permette di continuare a sentirmi impegnato nel mondo. La mia vita è stata arricchita dal fatto di vivere a New York, in tutti i modi: sentimentalmente, sessualmente, intellettualmente, culturalmente, finanziariamente, ma è nella natura che sento l’antidoto a tutti i problemi che l’uomo ha creato».
Solo perché l’ha menzionato lei: come definirebbe questo momento della sua vita lontano dalla scrittura?
«Ho sempre vissuto periodi di stallo tra un romanzo e l’altro, anni in cui la mia mente smette di essere creativa. Questi periodi mi spaventano, è come se la mia immaginazione, piuttosto che sopita, fosse morta, anche se, finora, sono sempre riuscito a trovare la strada per un nuovo libro. E poiché voglio che i miei libri siano unici, diventa sempre più difficile trovare storie originali e nuovi modi di raccontarle. Quando ero giovane, c’erano così tante giungle oscure e luoghi estranei, dentro di me, da esplorare».
Adesso che è diventato adulto, c’è stato un dolore di ragazzo che le è tornato utile?
«Il dolore è stato determinante a formarmi e la mia filosofia di vita, a tal riguardo, è semplice: se ti piace la persona che sei, dovresti abbracciare tutte le tue esperienze passate. Penso che il dolore sia un’esperienza più potente e trasformativa del piacere e quello che sono adesso, in fondo, è il risultato di tutto ciò che mi è successo. Se avessi sofferto di meno sarei una persona più felice, ma anche una personasuperficiale, meno empatica e meno creativa».
Che rapporto ha col passare del tempo?
«Sono un nostalgico. Non mi piace la rapidità con cui le cose cambiano e preferisco il passato al presente o, Dio non voglia, al futuro. Vorrei essere più bravo ad accettare i modi in cui il mondo cambia, tutte le persone anziane che ammiro lo fanno, vivono nel presente, lo accettano. Sento che i recenti sviluppi tecnologici, perché non li chiamerei progressi, ci allontanano da noi stessi e dagli altri, e sminuiscono le nostre vite. In particolare, mi mancano i modi di scrivere e leggere che stanno scomparendo: il piacere estetico della penna sulla carta, lo sforzo di premere i tasti di una macchina da scrivere, il tenere tra le mani o sul viso un libro. Ho molti libri che hanno più di cento anni e funzionano ancora perfettamente».
Non si è mai cimentato, non in maniera spudorata, con l’autofiction.
«Credo che alcuni romanzieri scrivano ispirandosi alle loro esperienze, altri, al contrario, partendo dalle loro esperienze e trasformandole con l’immaginazione. Faccio parte del secondo gruppo.
Non ho mai trovato spunti narrativi nella mia vita, forse perché è troppo vicina a me e non riesco a vederla, o forse perché l’idea di vivere qualcosa e poi scriverne mi sembra ridondante. Scrivo per dimenticare me stesso, per esplorare e immaginare persone, luoghi ed esperienze che non sono le mie. È lo stesso motivo per cui amo leggere: per allargare e complicare il mio mondo, per dimenticare e perdermi nelle vite degli altri».
C’è qualcosa che l’entusiasma allo stesso modo di quando era bambino?
«Incoraggiarmi a leggere è stato forse il regalo più grande dei miei genitori, poiché la lettura mi ha permesso di vivere esperienze che non avrei mai potuto vivere altrimenti. Penso spesso a quanto mi sentirei solo se non avessi letto romanzi fin dalla più tenera età: sono cresciuto in un mondo ferocemente e incessantemente eterosessuale, dove non ho trovato alcuna indicazione, né tanto meno conferma, della mia omosessualità. Ho sempre avuto bisogno di questo modo alternativo di essere vivo per sentirmi veramente vivo».
E cosa l’ha spinta alla scrittura?
«L’idea che ogni vita, se esaminata da vicino, sia affascinante e degna di attenzione. Leggere è un atto ingegnoso poiché chiunque, leggendo un romanzo, lo filtra attraverso la propria coscienza. In questo modo ritengo che scrivere un libro sia un’esperienza molto simile alla lettura e che scrittori e lettori si somiglinopiù di quanto pensiamo. Gli scrittori creano, i lettori immaginano. L’idea della verità, da bambino, non mi interessava molto. Mi interessava di più inventare verità alternative, il che, ovviamente, equivale a mentire. Mi piaceva il potere di ingannare le persone, ed era sempre quel sottile equilibrio tra ciò che era successo e ciò che potevo far credere fosse successo, che mi eccitava. Credo che i miei romanzi siano proprio questo, bugie: ciò che poteva accadere, ma non è accaduto».
C’è mai stato un episodio in cui ha capito che, da quel momento in poi, nulla sarebbe stato come prima?
«C’è stato un momento, all’università — avevo circa vent’anni — in cui ho capito di essere uno scrittore in modo profondo e consequenziale. È stato quando ho intuito che c’era un’abilità, dentro di me, ma che non sembrava mia, che non controllavo. Suppongo sia il talento. Quando siamo giovani, la nostra mente subconscia è spesso molto più avanzata di quella conscia, cosicché possiamo sapere e capire cose che possono essere espresse solo artisticamente, non intellettualmente. Forse anche per questo, man mano che invecchio, mi è sempre più difficile scrivere narrativa».
Cosa la rende triste e cosa, al contrario, le dà gioia?
«In questo momento mi rende triste la guerra inUcraina. È così stupida, distruttiva ed emblematica di quanto possano essere malvagi gli uomini — e intendo gli uomini, non l’umanità. Ciò che mi rende felice, invece, è il ritorno della primavera, vedere la natura risorgere nel suo modo miracoloso e bellissimo. Mi ricorda che il mondo naturale resiste nonostante l’essere umano, e anche se bruciamo tutte le giungle, sciogliamo tutte le calotte glaciali e riusciamo a distruggere la razza umana, la natura continuerà senza di noi».
Come vive con l’idea che, tra cent’anni, qualcuno possa sentirsi in diritto di cambiare i suoi libri per adattarli alla sensibilità dei tempi?
«Personalmente, cerco di esistere solo nel mondo del libro a cui sto lavorando. Prevedere come verrà accolto quando sarà pubblicato, o tra cento anni, preoccuparmi che il linguaggio sia politicamente o socialmente corretto, richiederebbe di guardarlo da fuori. Questo potrebbe interrompere il mio legame con l’anima stessa del libro, e sarebbe letale. L’arte dei decenni è un dono che ci permette di capire chi eravamo e, proprio per questo motivo, i libri dovrebbero turbarci e offenderci. I libri che si limitano a confermare la nostra visione del mondo non hanno alcun valore sociale o personale. Sono libri privi di nutrimento, poco salutari. Come le bibite dietetiche».