ItaliaOggi, 13 maggio 2023
Che succede in Mediobanca?
Chi è che ha più del 9% di azioni di società quotate, che secondo un tentativo (fallito), avrebbe potuto annullare la proposta della lista dei consiglieri formulata dallo stesso consiglio d’amministrazione in carica?
Non è né un calembour né un rompicapo, ma una faccenda molto seria riguardante il potere nelle società quotate e in particolare in quelle due che costituiscono l’asse del sistema bancario-finanziario e assicurativo italiano.
Chi ha più del 9% della galassia Mediobanca-Generali se non gli eredi di Leonardo Del Vecchio (19,9% di Mediobanca e 9,77% di Generali) e chi se non il costruttore edile, definito spesso dai suoi detrattori il maggior palazzinaro di Roma, Francesco Gaetano Caltagirone (9,9% di Mediobanca, comunicato recentemente, e 6,23% di Generali)?
E guarda caso proprio in vista del prossimo rinnovo del consiglio d’amministrazione di Mediobanca in carica fino all’approvazione del bilancio al 30 giugno prossimo (l’assemblea si tiene tradizionalmente il 28 ottobre), proprio Caltagirone, costruttore, cementiere, nonchè editore del Messaggero nella capitale, del Mattino di Napoli, del Gazzettino di Venezia etc. etc. nonchè ormai finanziere protagonista della borsa, ha comunicato di essere arrivato al 9,9% della banca creata da Enrico Cuccia. E quasi per incanto, come ha rivelato MF-Milano Finanza del 6 maggio, nel decreto legge omnibus del 4 maggio si forniva la possibilità di assegnare, a chi avesse più del 9% delle azioni, il potere di considerare non presentata la lista di consiglieri eventualmente proposta dal Consiglio in scadenza.
Era stato lo stesso comunicato della presidenza del consiglio, dopo la riunione del 4 maggio, a rivelare che era stato inserito nel decreto omnibus in approvazione un articolo in base al quale gli statuti delle società quotate avrebbero potuto prevedere la lista del cda, ma da comunicare almeno 40 giorni prima dell’assemblea e non 25 giorni come gli altri candidati. Ma era pronto un emendamento (presentato già nel decreto fintech di fine aprile, ma senza esito) che avrebbe aggiunto un altro comma, che consentiva di annullare la lista proposta dal consiglio uscente nel caso un azionista importante (appunto più del 9%) avesse presentato una lista alternativa con un numero di candidati pari a quello dei consiglieri da eleggere. Nel testo del decreto legge firmato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e pubblicato in Gazzetta Ufficiale di tutto ciò non c’è traccia. Che cosa è successo? È stato il presidente Mattarella, prima di firmare il decreto, a cassare quel potere di cui erano noti il nome e il cognome dei beneficiari? Oppure, c’è da sperare, è stato un ripensamento del governo?
Sia come sia, per ora il pateracchio è stato evitato e c’è da stare attenti che non rientri dalla finestra durante la fase di approvazione e conversione del decreto legge da parte della maggioranza parlamentare. A giudizio di molti, infatti, quanto stava accadendo non è altro che un estremo tentativo di ribaltare, questa volta partendo da Mediobanca, la struttura gestionale della stessa Mediobanca e delle Generali dopo il fallito assalto al leone di Venezia guidato da Caltagirone, all’ultimo rinnovo delle cariche del 2022. Pur avendo in Generali una percentuale inferiore, anche sommando il figurativo alleato Del Vecchio, Caltagirone un anno fa ha condotto la più aspra delle battaglie per impedire che passasse la squadra di consiglieri indicata dal consiglio d’amministrazione. La tesi era che di fatto il consiglio, proponendo la lista di maggioranza, non faceva altro che perpetrare se stesso, ignorando che questa è la regola nei gruppi a vasto azionariato e con molti investitori istituzionali. Infatti, fondi e sicav, nonostante ardite manovre di Caltagirone, finirono per votare per la lista indicata dal consiglio uscente e della quale era entrato a far parte, con la designazione a presidente, una personalità della statura e dalla sicura rettitudine e capacità dell’ex-rettore della Bocconi, ex-presidente della Borsa italiana e attuale presidente della stessa Bocconi, il professor Andrea Sironi.
Il pressing per cercare di sfondare da parte di Caltagirone non risparmiò nessuna parte del fronte, cercando, invano, di ottenere vantaggi dalla Consob, che guidata dal presidente Paolo Savona fece muro alle richieste pretestuose del sia pure presunto re di Roma.
È vero, per anni e anni Mediobanca, maggior singolo azionista di Generali con il 13,1%, ha considerato la compagnia di Trieste un suo feudo, al quale far compiere acquisti e vendite programmate a Milano. Era allora abitudine che un direttore centrale di piazzetta Cuccia andasse ogni 20-30 giorni a Trieste a proporre qualcosa o a chiedere di che cosa avesse bisogno la compagnia, garantendosi così importanti provvigioni. Una visita del genere avvenne anche dopo pochi giorni dalla nomina come presidente a Trieste di Cesare Geronzi, che proveniva dalla presidenza di Mediobanca. Si presentò a lui, che ben conosceva le strategie di Mediobanca essendone stato appunto presidente, il solito direttore centrale. Per evitare una riunione operativa, Geronzi scelse la cortesia di invitarlo a pranzo. Di ritorno dal ristorante, comandò al direttore Raffaele Agrusti di informare il messo di Mediobanca che era sopraggiunto un impegno imprevisto e urgente e che si scusava, ma si sarebbero dovuti rivedere per un appuntamento dopo due mesi.
Quella era ancora l’impronta di Mediobanca di Enrico Cuccia e soprattutto di Vincenzo Maranghi. L’attuale ad, Alberto Nagel, ha capito che i tempi sono cambiati e che Mediobanca non ha più privilegi e che le Generali hanno un amministratore delegato, Philippe Donnet, che pretende autonomia, avendo finora rispettato i budget e raggiunto gli obbiettivi.
Del resto, a Mediobanca devono battersi il petto se oggi devono confrontarsi con l’arroganza di Caltagirone. Fu infatti proprio Cuccia a decidere che il Messaggero, allora di proprietà della Montedison in smobilizzo fosse assegnato a Caltagirone. Geronzi e il presidente Pellegrino Capaldo, che con Banca di Roma erano azionisti forti in Mediobanca, avevano idee diverse per il principale giornale romano, ma Cuccia, che aveva iniziato la sua carriera come giornalista e proprio al Messaggero, fu inflessibile nell’assegnarlo a Caltagirone che era diventato il più ricco di Roma. Un errore fondamentale o meglio un vizio quello di Cuccia, che pure ha avuto non pochi meriti, nel voler far sì che i principali giornali del paese fossero controllati dai grandi gruppi. Fu proprio Mediobanca di Cuccia a riconsegnare nelle mani degli Agnelli il Corriere della Sera. È questo il peggior difetto della democrazia italiana: le mani sui giornali e quindi sulla democrazia, come mi sono trovato a raccontare nel mio libro, omonimo. E per fortuna ho trovato un editore libero come l’attuale maggior azionista di Rcs, Urbano Cairo, che dopo la vendita della Rizzoli libri da parte dell’azionariato controllato da Torino e Mediobanca per fare cassa a fronte della condizione disastrosa in cui avevano portato il maggior quotidiano italiano, ha saputo ricreare con Solferino una casa editrice viva e aperta.
Come si può capire, il potere dell’informazione è usato per difendere e accrescere il potere economico finanziario e viceversa e questo è appunto uno dei punti più deboli se non il più debole dell’Italia. Possedere e usare il maggior quotidiano della Capitale è uno dei maggiori strumenti di potere di Caltagirone sul mondo politico. Nei Paesi a più alta democrazia, i sistemi informativi sono scissi dal potere economico e finanziario. Per tutti valga il caso del The New York Times in Usa, dove pure lo strapotere degli Ott ha minacciato e minaccia la democrazia garantita dai giornali o dai sistemi di informazione indipendenti. Del resto, morto Carlo Caracciolo che aveva fondato, con il presidente della Mondadori Mario Formenton, Repubblica e la catena dei giornali locali, oggi Repubblica, dopo essere diventata strumento di Carlo De Benedetti, è degli Agnelli e la catena dei giornali locali sta finendo in mano a imprenditori locali.
Scusate, cari lettori, la parziale divagazione, ma sarebbe difficile capire cosa accade o potrebbe accadere per la democrazia delle società quotate se non si tenesse conto del degrado avvenuto nella proprietà dei mezzi di informazione. E Class editori esiste proprio per cercare di combattere questo incesto contro la democrazia.
Ma ora, tornando al tema del permanente assalto a Mediobanca (che non è stata certo una mammoletta nel passato) e Generali, per fortuna c’è un’altra barriera alla possibile conquista di chi ha anche vasta influenza sull’informazione e quindi sulla democrazia. Se ne accorse il bravissimo Del Vecchio, quando, precedendo Caltagirone, decise di investire decisamente su quella che per anni ha avuto il privilegio, con Cuccia, di essere l’unica banca d’affari italiana. Con quasi il 20%, Del Vecchio e ora i suoi eredi sono il maggior azionista di Mediobanca, ma non hanno avuto e non hanno potere. Per una semplice ragione: perché Mediobanca è vigilata da Bce attraverso Banca d’Italia e se Del Vecchio avesse voluto trasformare in potere di comando quel suo quasi 20%, avrebbe dovuto accettare che la sua finanziaria Delfin, che possiede il pacchetto e il controllo del gruppo, diventasse essa stessa controllata, come una banca, da Roma e Francoforte. Oggi, se gli eredi di Del Vecchio volessero allearsi strutturalmente con Caltagirone, arriverebbero al 30% circa del capitale di Mediobanca e ne avrebbero ancor più il comando, ma anche la scatola di Caltagirone verrebbe sottoposta al controllo e alla verifica di ogni atto da parte della Bce e di Bankitalia. Una realtà che non è piaciuta a suo tempo a De Vecchio e che sicuramente non può piacere a Caltagirone. I regolamenti Bce, infatti, non favoriscono che le banche possiedano i mezzi di informazione, tanto più se dominanti in aree chiave di un paese come la capitale Roma. Per questo, persa un anno fa la battaglia su Generali, Caltagirone ha architettato la manovra, per ora fallita, di mescolare le carte in Mediobanca impedendo al consiglio d’amministrazione di riproporre a tutti gli azionisti una lista che non abbia un azionista o due di comando.
Al Quirinale queste realtà non sfuggono. Ecco perché dal decreto omnibus è scomparsa quella norma che consentiva a chi ha anche solo il 9% di poter annullare la lista di consiglieri proposta dal consiglio d’amministrazione in uscita, come avviene in quasi tutti i gruppi maggiori nel mondo.
Non resta che attendere se il potere e l’inventiva di Caltagirone riuscirà a riproporre il machiavellico ma pacchiano disegno. Tutto ciò, tuttavia, deve servire di ammonimento anche per chi gestisce oggi Mediobanca e chi gestisce le Generali, perché le scelte siano sempre e solo nell’interesse di tutti gli azionisti e quindi di un mercato dove anche il più piccolo azionista possa avere diritti ed essere rispettato e non considerato parco buoi. MF-Milano Finanza esiste per questo, per raccontare, senza nessun interesse personale di chi ne possiede le azioni e di chi vi lavora, soltanto quello che serve sapere al mercato e a chi si comporta correttamente sul mercato, senza omettere anche la minima informazione su chi, pur non commettendo reati, vuole asservire al proprio interesse i cardini fondamentali dell’economia e della finanza del paese.
* * *
È da giorni che da più lati del centrodestra e anche dagli Usa si invita la presidente Giorgia Meloni a far uscire l’Italia dall’accordo della Via della Seta con la Cina. Forse anche un po’ infastidita da queste pressioni, tre giorni fa il capo del governo ha risposto che la scelta non è così semplice e che in ogni caso c’è tempo per decidere perché l’accordo con il paese, che in prospettiva sarà l’economia più grande del mondo, scadrà fra mesi. E la presidente Meloni sa bene che gli imprenditori italiani non la pensano come vari esponenti della sua maggioranza e come gli Usa. Sicuramente ha letto i risultati ottenuti in questo primo trimestre da molte aziende italiane che esportano in Cina. Tanto per esemplificare, Prada ha fatto più 23%, e altrettanto Tod’s, ma non è solo la moda quasi tutti i settori sono in crescita. E la crescita sarà sempre maggiore, anche se gli Usa e la destra, principalmente leghista, non ama (ne ha diritto), la politica di Xi Jinping. Ma Meloni sa che chi come l’Italia ha bisogno vitale di esportare, non può prescindere dalla Cina. Il punto sulla Via della Seta fa capire che il capo del governo ragiona a fondo prima di parlare. Per fortuna. Si provasse il primo ministro tedesco, il cancelliere Olaf Scholz, a cambiare la politica di Angela Merkel verso la Cina, con i Jumbo carichi di imprenditori che ha portato in Cina e che hanno fatto florida l’economia tedesca…
P.S. Fsi non vuol più dire e non è più il Fondo Strategico Italiano, ma, guidato dal suo fondatore Maurizio Tamagnini, continua a comportarsi con lo stesso obiettivo strategico di far crescere le aziende chiave e tecnologiche del paese. L’ultima operazione è un investimento, di questi giorni, per 100 milioni in Bancomat. Con i quali l’investimento in aziende tecnologiche è arrivato a un miliardo di euro: Cedacri, Cerved, BccPay e Lynx. Speriamo che CdP, che alla fondazione era il maggior azionista di Fsi, riesca a sua volta a salvare il controllo all’Italia della fondamentale rete in fibra di Tim e di Open fiber.