La Stampa, 13 maggio 2023
La crisi dell’America genera il caos geopolitico
La globalizzazione è l’ideologia dell’egemonia americana. Grandiosa utopia che promette di integrare il mondo nel mercato ed entrambi nell’America. Non negli Stati Uniti. Nell’American way of life, marchio e sostanza dell’impero a stelle e strisce. Impero non della ma per la libertà, emendamento di Jefferson a sè stesso, annuncio della vocazione espansionista coltivata dalle élite statunitensi. Mercato, mondo e benigno impero universalista compressi in equazione semplice. Identità. Santissima Trinità oggi ridotta in formula a «ordine basato sulle regole». Globale in quanto americano e viceversa. Sistema-mondo in crisi di credibilità nel suo stesso centro, di qui per estensione nel pianeta.
Crisi aggravata perché investe la più potente Chiesa moderna, la più religiosa fra le potenze. Nell’intuizione di G. K. Chesterton, beffardo spirito britannico: «L’America è l’unica nazione al mondo fondata su un credo. Tale credo è espresso con dogmatica, persino teologica lucidità nella Dichiarazione di Indipendenza». Costituzione per il mondo, data dalla nazione posta sotto la protezione del Creatore. Sequenza di sillogismi che attribuisce al popolo americano la rappresentanza dell’umanità dotata per tocco divino degli «inalienabili diritti alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità».
La crisi di una nazione così speciale apre una transizione egemonica. Fase storica senza ritorno, perché avvia il collasso di un sistema o la sua radicale trasformazione per successivi adattamenti. L’equilibrio del sistema è sfidato da tendenze erosive, fluttuazioni che ne deviano la curva e schiudono orizzonti imprevedibili. Processo che può durare generazioni o molto meno.
La transizione egemonica in corso potrebbe mutare in nuova stagione dell’impero americano, pur completamente rivisitato? Arduo ma possibile. A condizione di dotarsi di un limes. Di fare l’impero. Punto.
Ma prima serve cogliere le ragioni della crisi e adattarsi alla soglia senza tentare di forzarla. Non è vincendo la terza guerra mondiale che gli Stati Uniti possono brillare di nuova luce. Perché amministrare le macerie di Cina, Russia e chissà chi altro – noi italiani inclusi - è prospettiva poco invidiabile, posto che certo l’America non ne uscirebbe intonsa. Parrebbe ovvio. Non lo è affatto per i decisori di Washington che pubblicamente calendarizzano la guerra contro Pechino verso la fine del decennio. Né per Xi Jinping, che programma il ritorno a casa di Taiwan per il 2049, se serve con la forza. E servirà, a meno di cambio di regime in una delle due Cine o rinuncia pechinese a rischiare la pelle per rimpatriare l’isola ribelle.
Sragionamenti bellicosi che passano quali banalità nella mediosfera e vi si autoalimentano. Siamo in piena nevrosi da incertezza strategica, che nei riti di passaggio può inclinare all’idiozia del brevissimo termine. La deflazione del potere egemone genera inflazione delle paure collettive. Espressa nella tirannia delle piccole decisioni o tragedia dei beni comuni: cumulo di scelte frenetiche di soggetti singoli, fuori contesto, volte al presunto interesse immediato, che sfocia in esiti non voluti.
La geopolitica obbliga a investire nella soluzione dei conflitti, a meno di considerarne l’analisi mero gioco intellettuale. In tre punti.
Primo. La cosiddetta globalizzazione ci lascia in eredità uno squilibrio senza precedenti tra finanza ed economia reale. Come stabilito da Giovanni Arrighi nei suoi studi sulle transizioni egemoniche, le espansioni finanziarie su scala sistemica scatenano la competizione interstatale per il capitale mobile. Perciò assumono dimensioni geopolitiche. Investono tutti gli aspetti del potere, bruti e gentili. Redistribuiscono ricchezza e povertà, così stimolando la gara per il capitale liquido. Circolo vizioso. La finanziarizzazione è per l’egemone «segnale dell’autunno» (Braudel). Della soglia. Preannuncio di probabile fine regime per crollo del sistema egemonico, travolto dal caos. Tempo di gestazione del successore, se vi sarà. Il modello di Arrighi è schematico: «Dall’egemonia all’espansione, dall’espansione al caos, dal caos a nuova egemonia». Così nella transizione dall’Olanda all’Inghilterra - ovvero dalla centralità commerciale e finanziaria di Amsterdam a quella di Londra - e da questa agli Usa, retti in età alta dal trio geopolitico-finanziario-pop Washington-New York-Hollywood. Siamo lontani dalla transizione sistemica verso un nuovo ordine internazionale. L’autunno s’annuncia lungo, a meno di schianti nell’architettura a stelle e strisce o di suoi ingegnosi restauri. Conclusione: troppo disordine sotto il cielo della produzione di denaro per mezzo di denaro.
Secondo. L’impero americano cogestiva al suo zenit un universo di tre miliardi di umani, divisi in tre grandi famiglie. La sua, la sovietica e la galassia dei non allineati. Quest’ultima adibita a campo di gioco dei due imperi, dove sfogare e allenare i rispettivi bracci armati. Triade relativamente ordinata. Con i due poli a svolgere medesima funzione sistemica, usando l’altro come legittimazione di sé e partner di fatto nella manutenzione dell’equilibrio. Volto a garantire la pace fredda nel mondo dei potenti, astutamente battezzata guerra.
Oggi che siamo oltre otto miliardi e ci avviamo ai dieci previsti per fine secolo, la riduzione della complessità, misura ultima della potenza, è sartoria improba, non ricamabile con le sottili eleganze della guerra fredda. Viene da sorridere ripensando alla battuta di Brežnev a Thatcher: «Signora, noi ci battiamo per la stessa causa. La causa dell’uomo bianco». Atto di fede ormai impronunciabile e non solo a causa del politicamente corretto. I numeri indicano ai bianchi il destino di esigua minoranza non necessariamente protetta. I due imperi del mezzo secolo di Pax Americana, indissolubilmente apparentata alla Pax Sovietica in logica binaria, valgono in versione allargata forse un sesto dell’umanità, in decrescita. Conclusione: troppi umani e troppo diversi per un solo capo.
Terzo. La peculiarità dell’impero a stelle e strisce è (stata) l’attrazione del suo soft power. Musica, cinema, letteratura e arti americane seducevano persino gli avversari. Sicuramente più di quanto compiacessero gli snob europei o britannici. Oggi l’America non si piace più. Come può affascinare gli altri? Conclusione: l’egemonia dolce non è più crisma del Numero Uno.
Doloroso, ma vero: l’America globale non è possibile. Prepariamoci a convivere con una lunga stagione di caos. E a cambiare il modo in cui stiamo al mondo. L’era della beata irresponsabilità è scaduta.