la Repubblica, 13 maggio 2023
La pazza idea di Basaglia 50 anni dopo
Ciò che resta è prima di tutto un roseto. Magnifico. Perché la bellezza cura e ripara. Dove c’erano segregazione e violenza, dove sbarre, grate, camicie di forza, elettrochoc e volti senza luce separavano il mondo dei (cosiddetti) normali, dal mondo dei (cosiddetti) pazzi, oggi c’è un immenso giardino che esplode nel rigoglio di primavera, tra seimila rose di infinite e diverse varietà. Parco San Giovanni, ex manicomio di Trieste, “la libertà è terapeutica” dice la grande scritta oltre il cancello, svetta sul viale la sagoma in ferro di Marco Cavallo, cinquant’anni fa lo psichiatra veneziano Franco Basaglia apriva le porte di questo enorme complesso dove erano internati, in una condizione “de-umanizzata” più di 1.200 pazienti (vecchi, adulti, bambini) dando vita ad una delle più grandi rivoluzioni sociali e scientifiche del Novecento.
«Il manicomio non si cambia, si distrugge », affermava Basaglia, mentre in quelle carceri sanitarie di tutta Italia vegetavano più di centomila disperati. Corpi nudi, teste rasate, stoviglie di ferro, punizioni, sopraffazione, celle di isolamento. L’iconografia poteva essere migliore o peggiore, ma poco cambiava. I bambini. Buttati là non perché malati ma semplicemente poveri, abbandonati, rifiutati, “figli della colpa” scardinati dalla vita. «Noi neghiamo il malato come malato irrecuperabile e quindi il nostro ruolo di semplici carcerieri, tutori della tranquillità della società». Appunto. Era il 1973 e portando in corteo la statua azzurra del cavallo “Marco” costruita dai pazienti dell’ospedale, Basaglia e i “matti” sfondano i cancelli del San Giovanni ed entrano, finalmente, nella città. La reclusione diventa cura, fuori, nei territori, nell’inclusione.
Bisogna partire da qui, dai tavolini del bistrot “Il posto delle fragole” gestito da una cooperativa sociale dove lavorano persone con sofferenza mentale, per provare a capire, a 45 anni dal varo della legge 180 che sancì la chiusura dei manicomi, a 43 anni dalla morte di Franco Basaglia e a quasi due mesi da quella di Franco Rotelli, suo collaboratore ed erede a Trieste, cosa resta e quanto resta di quella rivoluzione. Tra tagli di risorse, nuove segregazioni, reparti blindati e contenzione. Ora che la morte della psichiatra Barbara Capovani per mano di un suo ex paziente ha portato in piazza centinaia di operatori della salute mentale che chiedono sicurezza, anche in aperta contestazione della legge 180 (accusata di essere inattuale addirittura pericolosa) è dal cuore battente del “laboratorio Trieste” che possono però, ancora, arrivare risposte.
Giovanna Del Giudice è stata una giovane collaboratrice di Basaglia e di Franco Rotelli, direttore dell’ospedale psichiatrico dal 1979 al 1995, poi alla guida dell’azienda sanitaria di Trieste. «Avevo 24 anni e arrivavo dal Sud. Volevo soltanto una cosa: lavorare con Basaglia», ricorda con indomita tenacia. È proprio accanto al roseto voluto da Franco Rotelli, inuna giornata di ricordo dello psichiatra appena scomparso, tra l’affetto dei colleghi di una vita come Peppe Dell’Acqua e giovani psichiatri con la voglia di ripartire da quell’eredità che Giovanna Del Giudice, presidente della “Conferenza per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia” traccia un bilancio. Insieme a Devora Kestel, direttrice del Dipartimento di salute mentale dell’Oms: «Ho vissuto proprio qui, al San Giovanni, per studiare il modello Trieste. Quando devo fare un esempio realizzato di salute mentale, cito Basaglia e questo luogo dove abbiamo imparato che le cose possono succedere». L’utopia realizzata della de-istituzionalizzazione, i muri che si sgretolano, la luce che torna in vite considerate scarti. Se è vero, come sottolinea Kestel, «la legge 180 non è mai stata del tutto applicata», di fronte a tragedie come quella di Pisa, bisogna però chiedersi «perché non abbiamo agito prima, piuttosto che invocare leggi più dure».
Il sole è forte, Peppe Dell’Acqua è seduto sotto un gazebo, lo abbracciano colleghi, amici, pazienti, come fosse, un po’, il padre di tutti. Da cinquant’anni difende, strenuamente, la libertà dei matti. «La legge Basaglia viene chiamata in causa per coprire il disinteresse di Regioni, governi e ministeri verso la malattia mentale, per nascondere investimenti miseri, disorganizzazione, ostilità burocratica e resistenza al cambiamento. Ci accusano di tutto, addirittura di aver armato culturalmente la mano dell’assassino di Pisa. Che amarezza. Tacendo invece quei risultati meravigliosi di inclusione nella vita di migliaia di persone là dove ci è stato permesso di operare». Racconta Giovanna Del Giudice: «Le criticità sono moltissime, anche in Friuli Venezia Giulia, ma l’impianto della legge 180 è saldo. C’è stato un salto storico da cui non si torna indietro: il manicomio non lo vuole più nessuno, né gli operatori né tantomeno le famiglie. Le persone con sofferenza mentale, grazie a Basaglia, sono oggi cittadini con diritti e identità, non più una folla indistinta di reclusi considerati socialmente pericolosi, semplicemente perché malati».
È nel passaggio dalla segregazione dell’ospedale psichiatrico ai centri di salute mentale, di cui Trieste è stata anticipatrice, con gli ex degenti dimessi e inseriti in case, in cooperative lavorative, il fulcro della riforma che porterà alla legge 180 del 13 maggio 1978. (L’ultimo manicomio, Santa Maria della Pietà, chiuderà però 20 anni dopo). In un’idea della cura che comprendeva — e comprende— i farmaci, ma anche quelle ragioni sociali, povertà, disagio, esclusione, «che insieme a una eziologia biologica e psicologica sono causa della sofferenza psichica». Ossia la grande intuizione di Franco Basaglia, a lungo osteggiata dalla psichiatria tradizionale: la follia si nutre di disuguaglianze.
Sul palco del roseto si alternano le voci degli operatori, artisti, ex pazienti. Esemplificazione della barriera inesistente tra normalità e follia. «Per affrontare la malattia mentale bisogna farsi carico del contesto in cui la persona vive. È quello che a Trieste per lungo tempo siamo riusciti a fare, con quattro centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, in relazione con le realtà della città», spiega Del Giudice. Pubblico, privato, borse lavoro, budget di salute, l’arte, il teatro. «Oggi soffriamo un drammatico calo di risorse. Mancano migliaia di operatori. I fondi per la salute mentale sono soltanto il 2,6% di tutta la spesa sanitaria, erano il 3,1%, addirittura diminuiti nell’ultimo anno, mentre la sofferenza mentale in particolare tra i giovanissimi è esplosa. C’è una regressione culturale sia delle pratiche sia dei dispositivi organizzativi, sono soltanto venti su 320 i servizi di diagnosi e cura che non legano i pazienti». «La terapia sta tornando ad essere unicamente farmacologica — ammette con amarezza Giovanna Del Giudice — e avanza la cultura dell’internamento ». Con la psichiatria chiamata, di nuovo, non solo a curare, ma anche a “custodire” pazienti. In quell’ottica segregazionista che rinchiude i vecchi nelle Rsa, i migranti nei centri di accoglienza. Si stima che 4 milioni di italiani soffrano di disturbi psichici, ma soltanto 900mila trovino cure e ascolto. «Addossare alla 180 tragedie come l’assassinio di Barbara Capovani invocando nuovi manicomi è assurdo. I malati di mente non delinquono più degli altri. Dovremo capire perché Seung non è stato intercettato dai servizi, se per lui era in atto una presa in carico. Interrogativi dolorosi ma ai quali non ci possiamo sottrarre».