Corriere della Sera, 13 maggio 2023
Anche con la destra, sarà la solita Rai
Le cose starebbero così: l’Italia è un Paese di destra con una cultura a sinistra, perciò ogni volta che la destra vince le elezioni deve riprendersi il suo, e costruire un nuovo senso comune più corrispondente al paese reale. Ergo, deve occupare la Rai.
Ora, la prima cosa da chiarire è che Rai e Cultura non sono neanche lontanamente sinonimi. Secondo: che l’ennesimo avvicendamento in direzioni e vicedirezioni di perlopiù oscuri funzionari non cambierà di una virgola la storia della cultura italiana. Terzo: che così fan tutti, è semplice «amichettismo», o nepotismo, ognuno premia i suoi; e d’altra parte anche chi denuncia scandalizzato «l’assalto della destra al fortino Rai» riconosce implicitamente che in quel fortino s’era asserragliata la sinistra.
Poi, ogni epoca ha la cultura che si merita. Negli anni ’90 Berlusconi portò in Parlamento un pacchetto di «professori» provenienti dalla sinistra, Colletti, Melograni, Vertone, Rebuffa, o dal mondo liberale, Pera, Urbani, Martino. Durò poco, ma fu un piccolo ’56; altro che il modesto risiko delle poltrone in corso oggi a Viale Mazzini. Da allora in poi, non molto è accaduto. Anzi. Quando si parla di «cultura di destra» si finisce sempre ai soliti due/tre nomi, su cui i cronisti si affannano a costruire i loro retroscena, Marcello Veneziani e Pietrangelo Buttafuoco in prima fila: personaggi ormai così indipendenti e appartati, «ingestibili» o «squinternati» come loro stessi si auto-definiscono, che poi non li chiama mai nessuno (e anche stavolta entrambi negano di essere stati contattati per succedere ad Augias nel suo programma di libri, per quanto di libri ne abbiano letti parecchi).
Buttafuoco rifiuta perfino l’idea che sia necessaria una «rivincita» della cultura di destra, perché questa a suo parere ha sempre dimostrato una superiore qualità: «Era uno scrittore migliore Vittorini che non voleva pubblicare Il Gattopardo o Tomasi di Lampedusa che l’aveva scritto? Il cinema italiano deve più a Benigni o a Pietro Germi e a Federico Fellini, che certo comunisti non erano? Ci ricorderemo di Carlo Cassola o di Giuseppe Berto? L’unica differenza è l’illuminazione: nella Rai di un tempo Corrado invitava Carmelo Bene a Domenica In, oggi Fazio non lo farebbe mai».
La sua idea è che la cultura di destra è per natura anticonformista. Simboleggiata da una celebre vignetta di Guareschi in cui, tornando da un campo di concentramento tedesco, lui chiede: «Il mondo, dove va?»; «A sinistra», gli rispondono tutti. E lui bofonchia: «Allora io vado a destra». Sarebbe questo anticonformismo ad averla «oscurata» nel potere editoriale e accademico. E Veneziani aggiunge, come concausa, un individualismo che a destra ha sempre impedito di far funzionare l’«intellettuale collettivo» di gramsciana memoria.
Poi bisognerebbe stabilire «che cos’è la destra, cos’è la sinistra» per dirla alla Gaber. Soprattutto oggi. I trascorsi filo-putiniani del nuovo uomo forte in Rai, Giampaolo Rossi, potrebbero per esempio unire la sinistra di Michele Santoro e la destra di Francesco Borgonovo. Mentre la pattuglia dei conduttori di indiscusso pedigree di sinistra ma ormai di rito pentastellato, sembra gradita alla nuova destra, tant’è che conserverà ampio spazio in una Rai già definita da molti «giallo-nera».
Quella che rischia stavolta davvero il viale del tramonto è piuttosto quell’idea «ottimista e di sinistra», come cantava Lucio Dalla, per la quale la storia ha una direzione unica, va sempre verso il progresso, e per questo chi non sta con i progressisti è contro la Storia. Un ricatto che ha sempre avuto una forte influenza sui ceti intellettuali, e che è probabilmente la vera chiave della cosiddetta egemonia culturale della sinistra. È l’anatema delle «anime belle», così lo definisce Pierluigi Battista nel suo nuovo libro in uscita: chi non si schiera è un disertore, «si mette in fuga davanti al destino», si rivela «incapace di agire nel mondo», secondo la scomunica di Hegel. O apre le porte al «nuovo fascismo», come si legge oggi.
Il Duemila, con la grande «rupture» dell’attentato alle Torri Gemelle, ha segnato la fine di questo «paradigma positivista», dice Gaetano Quagliariello, che quest’anno celebra i vent’anni della Fondazione Magna Carta. Tradotto in soldoni Rai: la fine dell’egemonia del Pd. E infatti a traballare sono le sue casematte, i salotti in cui con libri, canzonette e buoni sentimenti si costruiva il vademecum del vero progressista.
Eppure, giro di poltrone a parte, vedrete che alla fine sarà tanto rumore per nulla. Per parafrasare un celebre aforisma: la rivoluzione in Rai non si può fare, si conoscono tutti. Dubito perciò che avremo fiction sul fascismo o inchieste sull’etnia, che tra l’altro in una Rai pluralista ci starebbero pure bene, se fatte con professionismo e rigore. Più probabile che sarà tutta un’ospitata, un turnover di esperti, una nouvelle vague di commentatori. La solita Rai. Solo a parti invertite.