La Stampa, 12 maggio 2023
Michael J. Fox parla del suo Parkinson
Quando pensiamo agli Anni 80, in un angolo della nostra mente prende forma l’immagine di Michael J. Fox a bordo della DeLorean in Ritorno al Futuro. Non solo perché quello di Zemeckis è indiscutibilmente uno dei migliori film del decennio (e di sempre), ma anche perché Fox è diventato un simbolo, un’icona. Incarna perfettamente quel periodo: a 17 anni voleva avere successo, scalare Hollywood. A 21 anni è diventato una star. Poi è arrivata la malattia. A 61 anni l’attore – che grazie alla Michael J. Fox Foundation ha devoluto 450 milioni di dollari per la ricerca – racconta la sua storia in Still: La storia di Michael J. Fox, documentario diretto da Davis Guggenheim, da oggi su Apple Tv+. Si potrebbe pensare a un film strappalacrime, invece si ride di gusto. Fox ha sempre dei tempi comici perfetti. E teneva a una cosa in particolare: non farsi compatire. «Me l’ha detto subito – dice Guggheneim –, dimmi anche che sono uno scarafaggio, ma non patetico».
In che senso uno scarafaggio?
«Non faccio pena. Sono uno stronzo tosto! Sono come uno scarafaggio: non puoi uccidere uno scarafaggio».
Ma le difficoltà sono enormi: come le affronta?
«Il Parkinson non mi ha messo in difficoltà. Mi ha devastato. All’inizio l’ho affrontato ignorandolo. Negli ultimi tre anni però mi sono rotto entrambi i femori, la faccia e la mano. Mi hanno sostituito una spalla. Mi sono reso conto che potrei morire. E questo mi spaventa. Ma posso affrontarlo. La mia paura più grande è perdere la curiosità».
Come ci convive?
«È incurabile. Ma questo, oggi, non mi fa paura. Quando ero più giovane ho combattuto con questa idea. Me l’hanno diagnosticato a 29 anni. Quando il dottore me l’ha detto la prima volta ho pensato che non stesse succedendo a me. Mi erano capitate soltanto cose belle. E invece era arrivata questa mazzata. Per 10 anni ho nascosto la verità».
Perché raccontare la sua storia adesso?
«Dico sempre che il Parkinson è un dono che continua a consumarmi. Mi ha insegnato molto. E ha fatto in modo che la comunità del Parkinson entrasse a far parte della mia famiglia. Se non l’avessi non avrei aiutato così tante persone come ho fatto. E voglio continuare».
Oltre che con i fondi, lo fa anche con i libri.
«I pazienti col Parkinson sono spesso stati ignorati, perché in genere sono persone anziane. La verità è che molto probabilmente non l’hanno detto a nessuno fino a quando non è stato inevitabile. Lo so perché l’ho fatto anch’io. Ho capito quindi che avrei potuto unire le persone. Ed è l’unico merito che voglio prendermi: sono contento di aver creato un gruppo. È bello sapere che oggi una persona può scoprire di avere il Parkinson e non nasconderlo, ma dire: ho il Parkinson, come Michael J. Fox».
Cosa ha scoperto di sé grazie al film?
«La cosa incredibile è che più parlavo con Davis più ho capito di essere timido. Lo so, è difficile da credere. Ripercorrendo la mia storia ho realizzato che lasciare casa a 17 anni per inseguire il mio sogno è stata una mossa piuttosto coraggiosa. Non mi ero mai dato questo merito prima. Quando parlo con i giovani e mi dicono "i miei genitori non vogliono che faccia questo" li prego di non ascoltarli. Qualsiasi sia la cosa che volete fare non ascoltate! E fatela».
Il suo ottimismo è ormai leggendario.
«Mi chiedono spesso come faccio a essere ottimista. Cerco sempre di trovare qualcosa per cui essere grato. Se ci si riesce la vita diventa migliore. I fan mi hanno regalato la vita che ho. Non rinuncerei alla mia malattia: dico spesso anche che è un dono che continuo ad accettare. Aiutare gli altri ha dato alla mia esistenza un significato completamente diverso. Quando lo dico la gente mi prende per pazzo! Non si tratta di quello che ho, ma di quello che mi è stato dato».
E di cosa è grato?
«Tracy, mia moglie, e i miei figli. Il Parkinson non poteva essere la fine della mia storia. Dovevo trovare un modo per vincere. E grazie alla mia famiglia ci sono riuscito».