La Stampa, 12 maggio 2023
Carlo Ratti spiega come il Covid ha cambiato le città
L’architetto torinese Carlo Ratti, 52 anni, è a Singapore per CapitaSpring, il grattacielo con una foresta tropicale sospesa, che ha progettato insieme ad altri e che a suo dire «anticipa il futuro».
E qual è il futuro?
«Uno spazio privato-pubblico in cui come nell’edificio di Singapore si ibridano natura e architettura, naturale e artificiale. Un luogo di incontro aperto a tutti, dove durante il giorno si può lavorare e alla sera rilassarsi come al parco. Sono i concetti base di quella che con l’economista di Harvard Edward Glaeser abbiamo chiamato "Playground city", che forse in italiano si potrebbe tradurre con "Città dell’incontro"».
Le vecchie metropoli come New York sono in crisi?
«Chi credeva che lo smart working fosse una tendenza passeggera si sta ricredendo. A New York, e in generale nelle maggiori metropoli nordamericane, le statistiche ci dicono che il ritorno in ufficio è diventato così lento che quasi si è arrestato. Gli edifici per uffici sono rimasti letteralmente mezzi vuoti».
Un altro tipo di long Covid?
«Chi ha un lavoro sceglie di collegarsi da casa, almeno per alcuni giorni a settimana. Un cambiamento che trasforma anche le città, costruite pensando a un enorme afflusso quotidiano di persone proprio nei vecchi uffici fisici».
Eppure ci sono dati positivi sul ritorno alla vita sociale…
«Mentre i grattacieli per uffici di New York o Chicago hanno smarrito la loro funzione originale e sono rimasti in parte disabitati, le statistiche sul numero di persone che sono tornate ad animare le strade, le piazze, i caffè, i ristoranti e i parchi, ma anche i musei o i festival sono tornati ai livelli pre pandemia. In altre parole, il Covid non ha ucciso le città, ma la sta facendo cambiare. E la socialità è al centro di questo mutamento».
La metropoli come si può riorganizzare?
«La grande città produttiva sta lasciando il passo a un modello più ricreativo. E le scelte politiche saranno decisive per far sì che essa non diventi un terreno di gioco solo per ricchi».
La città perde un po’ di importanza o si cerca solo una città più equilibrata?
«La città rimane fondamentale, perché è il luogo di incontro in cui coltivare i "legami deboli", per usare una definizione del sociologo americano Mark Granovetter, cioè preservare l’apertura al diverso. Una ricerca sviluppata dal mio laboratorio al Mit tra il 2019 e il 2021 dimostra che simili rapporti si disgregano se la nostra socialità si relega interamente alla dimensione digitale, come nei mesi del lockdown. Se viviamo e lavoriamo online ed evitiamo la città, rischiamo di circondarci di gente simile a noi e che la pensa nello stesso modo, favorendo la polarizzazione politica».
Va forse limitato lo smart working?
«No, bisogna mettere a punto azioni di design e politiche nuove capaci di incentivare quelle occasioni di incontro che un tempo derivavano dalla presenza in ufficio di tutti ogni giorno. Non a caso nel mondo si guarda all’abitudine italiana dell’aperitivo come a un momento propizio per la creazione di legami deboli».
Anche le città italiane stanno cambiando?
«La mia ricerca si concentra sulle città nordamericane, ma la pandemia ha trasformato il lavoro in tutto il mondo e pure in Italia l’occupazione degli uffici è inferiore al pre pandemia. Nel mio studio a Torino, per esempio, tutti fanno almeno un giorno di smart working a settimana. Il punto diventa allora come includere nello sviluppo urbano coloro che hanno impieghi non da ufficio. Un’idea potrebbe essere quella di rimuovere i vincoli sulle destinazioni d’uso, così da promuovere una maggiore vitalità su strada in svariati luoghi e orari. Questo consentirebbe di combattere quella concentrazione eccessiva o sbilanciata di alcuni fenomeni - flussi turistici, oppure presenza di locali notturni, ma all’opposto anche la mancanza di servizi di prossimità - che porta a innumerevoli episodi negativi».
Quali altre tendenze vede in atto in Italia?
«La pandemia sembra avere accelerato alcuni fenomeni. A Milano il successo degli ultimi dieci anni, diciamo a partire da Expo 2015, è ora comprensibilmente sotto processo per le disuguaglianze che ha prodotto. A Venezia e Firenze la ricerca di modelli alternativi per i flussi turistici è di nuovo un punto critico. E a Roma, dove si lavora per Expo 2030, si punta a una rigenerazione urbana potenzialmente inclusiva sul modello della città dell’incontro».
Cosa pensa della protesta sugli affiti degli studenti in tenda?
«Hanno ragione: sicuramente l’Italia è molto indietro rispetto ad altri paesi europei nella fornitura di alloggi. Credo sia fondamentale investire in questa direzione, o tutto resterà nelle mani del mercato, con i fuorisede esposti alla crescita dei prezzi degli immobili».
C’è qualche caso positivo da segnalare in tal senso?
«A Boston, dove insegno, tutto costa pressoché il doppio dell’Italia, e i prezzi del mercato immobiliare sono a livelli che farebbero sembrare economici i costi delle stanze in affitto nelle nostre città. Tuttavia uno studente lì ha a disposizione infinite opzioni per vivere in studentati: gestiti dal Mit all’interno del campus, o da fraternities e sororities, o ancora strutture private. E in questi casi i costi sono molto inferiori al libero mercato. Alternative che mi sembrano mancare in Italia».
Come procedono i lavori del suo studio nel villaggio olimpico di Milano?
«Con un ampio team di architetti internazionali abbiamo messo a punto il piano di sviluppo urbano per l’ex scalo di Porta Romana a Milano. Ora i lavori vengono portati avanti sui singoli lotti, incluso il futuro villaggio olimpico, che dopo i giochi invernali verrà trasformato proprio in uno studentato».
Qualche consiglio sulle città al governo italiano?
«Aprirsi alla diversità! Le città italiane vanno pensate come al contempo europee e cosmopolite. Il modo migliore per immaginare la città dell’incontro in Italia è coinvolgere i nuovi italiani di cui il nostro paese ha bisogno per invertire il declino demografico, e rinforzare il nostro ruolo di centro culturale del Mediterraneo».