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 2023  maggio 12 Venerdì calendario

Dario Argento si racconta

Per arrivare a casa di Dario Argento, devi addentrarti nel quartiere Coppedè di Roma, fra altorilievi e affreschi di leoni alati e di grifoni, e passare sotto l’arco col simbolo del sacro Graal messo lì per scacciare il maligno. Se piove, sembra di rivedere una giovanissima Eleonora Giorgi in una scena di Inferno, che scende da un taxi, di notte, un dito che sanguina e lei che si lascia ingoiare dalla bocca di uno di questi bizzarri palazzi con architetture dai rimandi esoterici. Il maestro dell’horror abita qui da tempo immemore (lui: «Neanche mi ricordo più perché»). Da novembre, è stato in casa per via di un intervento al femore, ma ora è in piedi e oggi è atteso a Londra al British Film Institute , dov’è in corso una retrospettiva con 17 suoi film restaurati in 4K, titolo Doors into Darkness, porte nell’oscurità. Di retrospettive gliene hanno tributate in Cina, Russia, Stati Uniti e in tutta Europa. Lui: «Mi ritrovo sempre in una folla di giovani, cosa che mi sorprende, ma non sono ancora riuscito a darmi una spiegazione».

 

Ha mai paura di quello che scrive mentre lo scrive?

«Per evitare distrazioni, scrissi Profondo Rosso in una casa che avevo in campagna vicino Roma. Era praticamente diroccata, non c’erano né luce né acqua... Arrivavo alle otto e me ne andavo la sera. E, quando cominciava a imbrunire, iniziavo ad avere paura delle cose che scrivevo e che vedevo riempire il foglio bianco nella macchina da scrivere: ogni volta che creo, è come se vedessi il film davanti agli occhi e scrivo quello che vedo. Vedo lui che attraversa la piazza, vedo una donna scaraventata contro il vetro di una finestra...».

 

 

E lì aveva paura dei suoi pensieri o perché avvertiva rumori, presenze?

«Forse perché i personaggi erano proiezione della mia immaginazione, ma era come se avessero una vita propria».

 

 

A 82 anni, immobile per cinque mesi, si è dato una spiegazione sul perché porta al cinema la paura?

«Ho fatto un lungo pensiero sul cinema horror in generale, dagli inizi a oggi. Sono partito dai primi film di Val Lewton, che era il responsabile del “reparto B” della Rko Pictures che produceva film da proiettare dopo quelli che oggi chiameremmo blockbuster. Quella “B” indicava film piccoli, semplici, ma non di seconda scelta. Lewton era geniale e fece una serie di horror bellissimi. Io li scoprii a Parigi. Mio padre mi ci aveva mandato sperando che studiassi, ma io passavo i pomeriggi alla Cinémathèque française. E quando diventai regista, dopo tre film più polizieschi, pensai che volevo tornare a quei momenti bellissimi passati a Parigi vedendo i film di Lewton».

 

Che cosa aveva trovato di «bellissimo» negli horror?

«Felicità, come aprire la porta e vedere un mondo mai incontrato, strano, coi fantasmi, i mostri. Ai tempi, il cinema era quello impegnato e, per me, l’horror era novità, libertà, era uno studio delle mie profondità. Mi ricordava Edgar Allan Poe, che lessi da ragazzino: un’emozione tale che, a scuola, scrivevo temi ispirati ai suoi libri e perciò bisticciavo coi professori».

 

In principio, fece il giornalista, poi scrisse e girò «L’uccello dalle piume di cristallo», «Il gatto a nove code» e «4 mosche di velluto grigio».

«Sono un solitario e pensavo che stare da solo con la macchina da scrivere fosse la mia condizione ideale. Poi, Sergio Leone chiamò me e Bernardo Bertolucci a scrivere C’era una volta il West. Scoprii che fare cinema mi piaceva. Scrissi L’uccello dalle piume di cristallo e non lo voleva nessuno, ma lo produsse mio padre: l’avevo fatto penare non finendo la scuola ma produsse tutti i miei film».

 

 

Che cosa serve per scrivere film che fanno paura?

«Avere un buon dialogo con la nostra metà cattiva. Non tutti sanno d’averla. Ma io la riconosco e ci parlo».

 

Una volta, ha detto: vorrei tanto incontrare questo Dario Argento, chiedergli perché nei suoi film ci sono sempre tante scale, tante tende, tanti animali, tante donne. Qual è la risposta?

«Le scale, credo, perché raccontano la paura di un incontro. Le tende mi riportano a quando, da ragazzo, andavo a letto passando da un lungo corridoio dove si muovevano tante tende, come fossero vive. Gli animali perché siamo uomini e siamo animali».

 

Le donne?

«Perché non erano molto raccontate e anche perché mamma era una fotografa famosa, specializzata in ritratti femminili. Il pomeriggio andavo a fare i compiti nel suo studio, potevo sbirciare donne meravigliose come Sophia Loren o Claudia Cardinale. Dopo, quando ho fatto cinema, è stato naturale ricordare il modo di mia madre di muovere e illuminare quei volti celestiali. E mi sembrò giusto raccontare di donne, ragazze, bambine, come la tredicenne di Phenomena o le ballerine di Suspiria».

 

Dunque nei suoi film ci sono tante donne ammazzate perché lei ama le donne, non perché le odia?

«Sono uno che le donne le ama, le ascolta, le capisce. Anzi, gli attori maschi mi imbarazzano, hanno sempre paura di esprimere qualcosa di sbagliato».

 

L’horror puro inizia con «Suspiria», primo film della trilogia delle tre madri. Come se ne spiega il successo?

«William Friedkin aveva fatto L’esorcista, ma era tratto da un libro. Suspiria è nato dal mio pensiero e la differenza con tutto quello che c’era stato prima è che non era solo una storia, ma era basato sulla psicologia. Perciò è diventato famosissimo e registi come Guillermo del Toro e John Carpenter si dichiarano miei seguaci. E poi, prima di Suspiria, un film sulle streghe non era mai stato fatto».

 

 

Il sovrannaturale esiste?

«Ho girato l’Europa in macchina cercando le streghe. Ho trovato qualche donna che si professava tale, parlava, parlava, ma non ho mai assistito a fenomeni inspiegabili».

 

E sono mai capitati fenomeni strani mentre girava?

«Molti con Suspiria e anche con Opera, tanto che incaricai il direttore di produzione di fare la lista, ma andò perduta. Peccato. Arrivati a Monaco per Suspiria, trovammo strade e chiese imbandierate di nero: era morto un cardinale, l’impressione fu forte. Poi, impazzirono gli orologi di molti di noi. Una notte, eravamo io, il direttore di produzione, il direttore della fotografia, tornavamo in albergo. Uno dei due nota una vetrina di Mercedes e dice: accompagnatemi a guardarla. Attraversiamo e sentiamo un boato: era una bomba, un attentato terroristico della Raf. Se fossimo rimasti dall’altro lato della strada, saremmo morti».

 

Altre esperienze inspiegabili?

«Mentre finivo Suspiria a Roma, mi ero da poco separato e abitavo all’Hotel Flora. Il film andava benissimo, ero felice, ma non ho mai capito perché, quando tornavo in albergo, mi veniva la follia di buttarmi dalla finestra. Poi, un amico medico mi suggerì di spostare un armadio davanti alla finestra. Mi spiegò: l’idea del suicidio sparisce in fretta e, se quando ti viene devi spostare l’armadio, ci metti abbastanza da fartela passare. Aveva ragione».

 

Per un po’, dopo le separazioni dalle mamme, le sue figlie Asia e Fiore sono state con lei. Fiore, all’«Isola dei famosi», l’ha definita «un papà dolcissimo». Si riconosce?

«Ho ricordi stupendi del periodo in cui siamo stati tutti e tre, di vacanze, serate a teatro, passeggiate. Una cosa che mi fa paura è l’idea di non vedere più le mie figlie».