Linkiesta, 11 maggio 2023
Invidiare Michela Murgia, quinta in classifica su Amazon
Ognuno muore come gli pare, se ci riesce, e già la vita è spesso carogna e non ci permette spesso di morire come vogliamo, figuriamoci se dobbiamo metterci a sindacare, tra gli ancora vivi, perché il come-mi-pare di qualcun altro non somiglia al nostro.
Sabato mattina, quando mi è arrivato un messaggio che mi diceva dell’intervista data da Michela Murgia ad Aldo Cazzullo, erano undici ore che non parlavo di lei. So esattamente che ora era, la sera prima, perché ero nella platea d’un teatro, e stavo parlando a un’amica di qualche scemenza ideologica, e ho detto una frase che non dicevo per la prima volta.
La frase più o meno faceva così: il problema è che la Murgia, di tutte queste con cui non sarò mai d’accordo, è l’unica in grado di costruire un pensiero, le altre derelitte ripetono male cose orecchiate senza capirle, e io non posso pensare di dover essere in disaccordo con delle scarse.
L’amica mi stava ascoltando distrattamente, e quindi non mi ha chiesto di cosa stessi parlando e perché temessi di restare sola con dibattenti non all’altezza, e io mi sono accorta troppo tardi che non poteva capire: era una delle poche a non sapere del disastro clinico di Michela Murgia, e quindi della mia preoccupazione egoista di restare senza una degna controparte.
La sera dopo ero a Verona, a vedere lo spettacolo di Checco Zalone, al principio del quale, come ormai accade spesso a teatro, viene chiesto di non fare riprese coi cellulari fino a nuovo ordine. Il nuovo ordine è quando, verso la fine, Zalone dice che adesso lo si può fotografare, ma poco, perché lui lo sa cosa ci facciamo con le foto: aspettiamo che muoia per postarle sui social come testimonianza della nostra vicinanza al cadavere del giorno.
Mentre ridevo, l’intervista del giorno era uscita da dodici ore, e in giro per l’Italia c’erano gli smaniosi della vicinanza all’ancora viva ma prossimamente morta del giorno: la Murgia aveva detto a Cazzullo delle sue metastasi e dei suoi pochi mesi di vita, e tutti avevano una foto, un ricordo, una luce di riflesso da esibire per dirsi sensibili e in tendenza.
In “Conversazioni dopo un funerale”, la prima pièce di Yasmina Reza, un personaggio dice «Tu, appena frequenti qualcuno, vai per forza al suo funerale! Povera te, non farai altro che andare ai funerali!», ed è un po’ quella roba lì; non credo che la Murgia non lo sapesse, e forse l’intervista l’ha data per quello: per assistere agli elogi funebri da viva.
La domenica mattina, Pierluigi Battista ha scritto un tweet che faceva così: «Sono “malato oncologico”, ma purtroppo non ho alcun messaggio edificante da regalare al mondo dei vivi nel quale, tutto sommato, non mi trovo malaccio. Forza a tutte e a tutti e viva la scienza che ci salva». Ho risposto che gli volevo bene e, poiché difficilmente le dinamiche social mi stupiscono, ho messo in conto che il come-mi-pare di Pigi era diverso da quello della Murgia, e quindi il mio affetto sarebbe stato preso come una polemica contro la Murgia (bisogna fare le curve di stadio pure su questo, il quasi morto mio contro il quasi morto tuo: come diavolo siamo messi, santa pace).
Ma l’ho scritto lo stesso, perché il giorno in cui sarò troppo vile e preoccupata della mia reputazione per rispondere pubblicamente a un amico che parla del suo cancro, e che dice come gli pare a lui di vivere e di morire, quel giorno spero che qualcuno mi finisca con un colpo alla nuca.
Che ognuno muoia come gli pare non mi pare una convinzione diffusa; quel che è strano è che anche il concetto di lasciar vivere gli altri come vogliono non mi pare implementato presso coloro che invece si dicono attenti alle libertà e all’arbitrio altrui. In questi giorni ho letto obiezioni a tutto: alla Murgia che pur di fare pubblicità al suo libro parla del suo cancro; a Cazzullo che osa obiettare che secondo lui la Meloni non è fascista; alla Murgia che mentre parla del suo cancro ciancia di fascismo; alla Meloni che se una che sta morendo le dà della fascista risponde qualcosa tipo «tu continua a vivere, ché io continuo a governare». L’unica cosa cui non ha obiettato nessuno è il Valentino che la Murgia indossava nel video in cui si rasava i capelli, e meno male: con l’etica siamo messi maluccio, ma esistono ancora baluardi estetici inviolabili.
Il fatto è che ha ragione Nanni Moretti: la gente cambia solo al cinema, mica nella vita. Nella vita restiamo tutti pieni di sbagliatezze o comunque di cose che qualcuno disapproverà, che abbiamo davanti trent’anni di vita o trenta giorni. Non è che perché Michela Murgia sta morendo le sue idee improvvisamente mi convincano, ma solo uno psicopatico non trova straziante che una persona muoia d’una morte così orrenda e prematura e da stronza.
Dice Yasmina Reza che i morti, quegli stronzi, non fanno nulla per aiutarci, nonostante lei si ostini a sgridarli o a chieder loro favori. I morti, quegli stronzi, sono morti. Lo so, state pensando a Monicelli, «muoiono solo gli stronzi»; solo che Monicelli poi si è buttato dalla finestra, e mi pare sempre un po’ assurdo citare come fosse gente che sì aveva capito la vita qualcuno che s’è ammazzato. Ecco, lo sto facendo anch’io: sto negando a Monicelli il diritto di morire come gli pareva.
Loredana Lipperini ha elencato sulla Stampa le categorie di coloro che hanno in questi giorni scritto della Murgia, tra le quali «qualche odiatore pentito che vuole essere perdonato, qualcuno che invece insiste». Leggendo, sono stata lieta che queste righe alle quali pensavo senza parlarne non fossero ancora state scritte o pubblicate: il fienile che ho in luogo del culo – altrimenti detto: coda di paglia – mi avrebbe altrimenti fatto credere d’essere inclusa nel novero.
Poi, ieri, ho deciso che la cosa migliore che si possa fare per una persona che sta morendo è continuare a trattarla come se fosse viva. Quindi sono andata su Amazon, e ho controllato come andassero le prenotazioni del libro di Michela Murgia che esce la settimana prossima. Era quinto in classifica. Ho pensato «che invidia», e ho sorriso con la stizza che si riserva ai vivi.