il Giornale, 11 maggio 2023
Intervista a José Tolentino
D i primo acchito, sorride. Gli occhi sembrano colibrì dietro la voliera delle lenti. Pare innocuo, un parroco di campagna per questo bisogna stare in sospetto, tendere le gambe e le orecchie, come archi. José Tolentino è nato a Madeira, in Portogallo, a metà dicembre del 1965; ha quattro fratelli, lui è il più giovane. «Mio padre faceva il pescatore», mi dice. A Roma diluvia, odore di bosco mescolato a Bernini. In Portogallo José Tolentino è riconosciuto come uno dei poeti più importanti degli ultimi decenni: per quel che conta, ha ottenuto molti premi. Il primo libro, Os dias contados, esce nel 1990, l’anno in cui è ordinato presbitero. Il palazzo in cui ci ospita è enorme, vuoto, con vasti corridoi. Sono insieme a Nicola Crocetti, l’editore che pubblicherà, a settembre, la prima antologia di versi di Tolentino in Italia, Estranei alla terra. In un paio di poesie, José Tolentino si chiede Cos’è una poesia. «Una poesia è una forma di apostasia. Non c’è vera poesia che non faccia del soggetto un fuorilegge». E poi: «Una poesia segue le premesse della guerriglia urbana». Interessante.
José Tolentino, il poeta, è stato creato cardinale da Papa Francesco nel 2019; dal 2022 è Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione. Nel suo stemma campeggia un giglio giallo su scudo rosso, con questo motto, Considerate lilia agri. È tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Matteo: Gesù invita a non occuparsi «di quello che mangerete o berrete», di non domandarsi «che cosa indosseremo?», ma di cercare «il regno di Dio e la sua giustizia». Il resto verrà di conseguenza.
Il cardinale ama Pier Paolo Pasolini, ricorda la Prima lettera ai Corinzi tradotta da Giovanni Testori, cita Eugenio Montale e Ungaretti. Non frequenta i poeti italiani, fa una vita ritirata, improntata alla solitudine e all’austerità. Parliamo di Elizabeth Bishop in Brasile e dei suoi amici poeti, portoghesi, Ana Luísa Amaral, Eugénio de Andrade. La sua curiosità per la poesia di oggi è inesauribile. Ogni giorno, per mestiere, parla in almeno quattro lingue. «A me piace guardarle...», mi dice. «Le parole, intendo. Mi piace guardarle. Mi piace osservarle. Come fossero un presagio, un sortilegio». Un gioco di prestigio, vorrei dirgli.
Prima di rispondere, allo scoccare di ogni domanda, il cardinale poeta fissa il vuoto, organizza la topografia del pensiero. Le sedie sono fin troppo comode.
Nei suoi lavori usa spesso la letteratura per rischiarare alcuni problemi teologici: cita Pessoa, Clarice Lispector, i poeti contemporanei...
«Paul Claudel credeva che la poesia fosse una propedeutica necessaria al discorso teologico. Ringraziava Dio dell’esistenza di Rimbaud perché senza la sua mistica selvaggia non sarebbe mai arrivato a Lui. Voglio dire: poesia e letteratura affinano i nostri sensi naturali per attivare i sensi soprannaturali. Offrono una capacità di ascolto, di ospitalità, che l’orecchio di per sé non possiede. La letteratura è il veicolo privilegiato della vita, pone questioni disarmanti: se la teologia la ignora rischia di ingarbugliarsi in un discorso autoreferenziale, incapace di incidere sulla realtà».
Quali sono i libri che la hanno formata?
«Naturalmente la Bibbia, che è grande letteratura. Capiamo davvero la poesia quando rileggiamo il Cantico dei cantici, i Salmi, il libro di Giobbe. Amo molto i lirici greci e mi sento vicino ai poeti portoghesi del nostro tempo, senza i quali sarei una persona molto diversa da quella che sono. Pessoa ha avuto un grande impatto su di me, ma anche Ruy Belo ed Eugénio de Andrade, di cui sono stato amico. Non mi convince chi preferisce leggere i poeti del passato, ignorando quelli del proprio tempo».
Lei ha tradotto in portoghese le poesie di Cristina Campo e ha fatto tradurre Gli imperdonabili per l’editore Assírio & Alvim. Come giudica la lotta di Cristina Campo per la tutela della liturgia latina, la sua vicinanza a Monsignor Marcel Lefebvre?
«Cristina Campo è un poeta, e un poeta è sempre una figura del dissenso. Il poeta ha il dovere di portare in sé la domanda, deve parlare di ciò di cui non si può parlare. Non ho dubbi che con il tempo la Campo sarà vista sempre di più come una madre del Concilio Vaticano II. In ciò che allora era un’opposizione scorgo ora un richiamo alla fedeltà alla tradizione, a conservare qualcosa di essenziale, che la Chiesa non può permettersi di perdere. La sua figura ha rafforzato il cammino della Chiesa contemporanea, ricordandoci cose decisive: il concetto di inattualità, ad esempio. La missione della Chiesa non può ridursi a un mero aggiornamento coi tempi. Il cristianesimo deve restare inattuale. Non perché ancorato nel passato, ma perché ha in sé una carica profetica: la forza essenziale del cristianesimo arriva dal futuro».
Benedetto XVI la ha nominata consigliere del Pontificio consiglio della cultura; Francesco la ha eletta Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione: esiste una differenza di poetica tra i due papi?
«Ogni papa porta con sé delle differenze, di cui non dobbiamo avere paura. Papa Ratzinger trascinava la monumentalità di una visione teologica del cristianesimo in rapporto al contemporaneo. Interpretava la contemporaneità intuendola, da una parte, come una chance, dall’altra scorgendone i pericoli, i riduzionismi, i relativismi. Capiva con capillare potenza gli incubi del nostro tempo. Papa Francesco incorpora un’altra poetica. A me affascina il suo modo di ragionare. Mentre Benedetto XVI ragionava come un maestro, squadernando concetti, Francesco ragiona per immagini. Quando gli pongono una domanda, il Papa inizia il ragionamento in questo modo: mi vengono in mente due immagini.... Ragionare per immagini ha una forza impressionante: tutti capiscono, è più universale, tocca livelli non solo concettuali ma anche emozionali».
Nella Chiesa di oggi vige una poetica o una politica?
«La politica esiste sempre: riguarda il rapporto delle persone con la storia e con il mondo. Credo però sia prevalente una visione poetica, che è il campo dello spirituale. Penso ad esempio alla capacità di Francesco di costruire parabole indimenticabili: tutti ricordiamo il Papa durante la pandemia, in un momento di grave crisi planetaria, che prega in una piazza San Pietro vuota...»
Lei cita la figura del Papa durante il Covid; io controbatto dicendole che proprio in quel periodo i fedeli si sono sentiti soli, con le Chiese chiuse, l’impossibilità di celebrare i funerali, in una specie di dismissione del mondo cattolico.
«La forza del cristianesimo, penso in questo all’epistolografia paolina, è di non dipendere da uno spazio ma dalla qualità di un rapporto. In condizioni estreme l’umanità può pregare? Sì, è possibile. La pandemia è stata una situazione estrema, che ci ha sorpresi impreparati e di cui sappiamo ancora poco. Io sono meno pessimista di lei: lo spirituale non è venuto meno durante il Covid, anzi, ha proliferato nei piccoli gesti, in un cristianesimo minimo, nella riattivazione della Chiesa domestica, ad esempio. Un cristianesimo bocca-a-bocca, mi viene da dire, dal contagio diverso, ma dall’intensità abbacinante. Un cristianesimo che guardava alle origini, che sempre aiutano a decostruire tante paure».
Quali sfide attendono il cardinale, quali il poeta?
«Ero poeta prima di diventare cardinale: rimango poeta. Cerco di abitare questa tensione, una tensione di cui io in primo luogo devo essere cosciente. La poesia che porto nella Chiesa non è una minaccia: ha in sé una visione, una forma diversa di ascolto».
Cosa del Vangelo, oggi, continua a folgorarla?
«In questi tempi leggo, in modo ricorrente, i passi del Vangelo che valorizzano le briciole. Nelle briciole si scopre il sapore della totalità. Viviamo nella frammentazione, ma il frammento ci permette un percorso elitario, spirituale; la donna cananea insegna che i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni (Mt 15, 27): Gesù valorizza la fede di quella donna. Per me, poi, il grande libro del nostro tempo è il Cantico dei cantici, un vademecum dell’innamoramento. Il futuro esiste soltanto finché sapremo innamorarci ancora».
Eppure, nel Cantico Dio appare, forse, una volta sola...
«... è vero, ma è sempre presente, anche quando sembra che non ci sia. Dio preferisce entrare a casa nostra quando non ci siamo. Non è male che sia così».