Avvenire, 11 maggio 2023
Ritratto di Cesare Garboli
Due anni fa la casa editrice minimum fax proponeva ai suoi lettori, con una bella prefazione di Emanuele Trevi, Un uomo pieno di gioia di Cesare Garboli. Un libro del tutto nuovo che recuperava l’ormai mitica introduzione ai Diari di Antonio Delfini del 1982, che il critico – termine che non amava – aveva poi incluso nel 1989 in una raccolta di testi analoghi, tutti pubblicati in quel decennio, intitolata Scritti servili. Accanto alle pagine su Delfini c’erano quelle su Molière, sugli amici Natalia Ginzburg, Sandro Penna ed Elsa Morante, sul maestro Roberto Longhi. Gli Scritti servili ritornano ora sempre per lo stesso editore (pagine 258, euro 16,00) con un suggestivo profilo bio-bibliografico di Raffaele Manica e una postfazione di Giorgio Amitrano. Garboli è uno di quei prosatori inafferrabili che si rivelano all’improvviso proprio là dove meno te lo aspetti. Prendete il saggio Vita di Molière, in cui lo scrittore parla esplicitamente di Ramon Fernandez, l’autore della biografia di «taglio romanzesco», ma per nulla «romanzata», apparsa in Francia nel 1929, di cui sta scrivendo la prefazione per l’edizione Rusconi del 1980. Garboli ha appena osservato che non è facile «presentare il libro di un critico di cui si ammira la qualità dell’ingegno, l’ardore e l’originalità dell’intelligenza, ma di cui non si condivide né il metodo né lo stile». Ma ecco, del tutto inaspettata, e per interposto Fernandez, una notazione che ha tutte le caratteristiche d’una clamorosa dichiarazione di poetica: «Questa Vita non è quel che è, cioè una biografia di Molière, ma non è neppure quel che tende a essere, cioè la metafora di un saggista e il documento incondizionato di uno scrittore». E poi: «I valori del libro si aiutano nel momento in cui si smentiscono e si cambiano di posto; e afferrarli e tenerli fermi è impossibile, essendo proprio la mobilità delle idee uno degli strumenti primari messi in moto per condurre l’analisi e spingere una narrazione che va avanti per scorci rapidi e sapienti, grazie ai subitanei cambiamenti di prospettiva e a quei tagli fantastici che sono la gioia, e l’inganno, dei romanzieri». Garboli non è Fernandez, ma quando parla dello stimatissimo critico francese e del suo libro come di «un colpo di mano», in cui «le luci della biografia di Molière si accendono e si spengono secondo un ritmo che non è il disordine di una vita, ma l’ordine, il ritmo, la regia di un’intelligenza», è difficile non pensare alla sua di opera. Con la differenza, però, che sulla sua pagina non c’è nulla della gioia e dell’inganno che Fernandez condivide coi romanzieri, ma solo una dolorosa necessità di esprimersi, molto prossima a un’urgenza biologica. Proprio nel serrato corpo a corpo con l’amico Delfini, Garboli l’aveva scritto chiaro: «Ma leggere è vedere, e scrivere è essere ciechi». Quando è vero appunto che soltanto nella cecità dei romanzieri sta forse la felicità beata e irresponsabile, mentre invece a Garboli, «scrittore-lettore» e «scrittore-editore», toccò un destino assai diverso: «Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo». Dicevamo dell’assenza di gioia che, proprio in rapporto a questa distinzione molto citata (fino all’abuso, direi), si porta dietro una conseguenza di non poco conto, che marca perentoriamente la distanza di Garboli da un altro campione della cultura non solo europea coeva, venuto a mancare proprio agli inizi degli anni ’80: Roland Barthes. Citiamo ancora dalla premessa intitolata Al lettore: «Ma non è detto che gli scrittori-lettori siano proprio coloro che conoscono il piacere della lettura». E poi: «Leggere è sentirsi posseduti; essere assaliti da un raptus e invasi da un dèmone, al punto che a volte penso che ficcare il naso in un libro sia un’operazione contro natura, nei limiti in cui al Leopardi estremo sembrava contro natura non dico l’intelligenza, ma il pensiero». Se infatti Barthes, al culmine d’un processo di estetizzazione che ormai riguardava la sua stessa vita, parlando di «piacere del testo», era arrivato a fare di sé stesso e del suo corpo (in Barthes di Roland Barthes, che è del 1974, innanzi tutto) il protagonista d’una sorta di egolatrica transustanziazione, Garboli respingeva invece questa terminale religione della letteratura, limitandosi a misurarne i livelli d’infezione. I libri non lo interessavano: se non come sintomi d’una conclamata patologia. A ossessionarlo erano, semmai, le persone che da quella patologia erano afflitte.
Ecco perché le ritrasse senza requie: e queste pagine splendidamente lo testimoniano.