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 2023  maggio 11 Giovedì calendario

Biografia di Vanessa Gravina raccontata da lei stessa

«Quando la mia immagine comparve sulla copertina di Vogue, i miei compagni di scuola me la fecero trovare sul banco tutta storpiata con vari segnacci: mi disegnarono i baffi, le occhiaie, i brufoli... Avrò avuto 7 o 8 anni e rimasi molto male. Ero un’ingenua e fino a quel momento non sapevo cosa fosse l’invidia. Non è vero che i ragazzini non sono invidiosi, possono essere feroci».
Addirittura feroci?
«Certo! E aggiungo che sono stata spesso bullizzata. Il bullismo non avviene solo nei confronti di persone con problemi fisici, ma anche nei riguardi di chi ha successo... e io ero carina e pure famosa...».
Vanessa Gravina, attrice di cinema, teatro e televisione, non usa mezzi termini. Un’avventura professionale la sua iniziata praticamente appena nata: la sua prima apparizione avviene in una pubblicità di passeggini su Carosello. «Sì! – ride – avevo solo 6 mesi! E lo spot pubblicitario era firmato dal regista Paolo Taviani!».
Com’è stato possibile?
«Per spiegarlo devo fare una premessa. Sono nata all’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Mia madre mi ha raccontato che, quando mi trovavo ancora in culla, la numero 20, insieme a tanti altri neonati, si formava un capannello di gente davanti alla nursery...».
Perché, era già famosa?
«Ovviamente no, ma le persone erano attirate dal fatto che, al contrario degli altri bambini un po’ pelatini, io avevo una massa in testa di capelli corvini e un paio d’occhi verde smeraldo: ero diventata l’attrazione dell’ospedale. Poi mia zia, che aveva un’agenzia pubblicitaria, chiese ai miei genitori se poteva mandare in giro le mie foto e da lì ho cominciato a lavorare come una pazza. Ho fatto campagne pubblicitarie in tv e su tante riviste, compresa Vogue. Per farmi contenta, mi regalavano tanti giocattoli, comprese le adorate Barbie».
Una privilegiata o una stakanovista?
«Un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Certamente fortunata, se penso che il mio debutto sul grande schermo a 11 anni avviene nel film Colpo di fulmine diretto da un regista importante come Marco Risi, dove recitavo a fianco di un attore famoso, Jerry Calà il quale, fra l’altro, non avendo studiato bene il copione, a volte si dimenticava le battute e io, un po’ maestrina, gliele suggerivo! A 12 anni recito nel ruolo della figlia di Gianni Morandi, nella miniserie La voglia di vincere diretta da Vittorio Sindoni... A 13 anni vengo scritturata nella Piovra 4 a fianco di Michele Placido, diretta da Luigi Perelli... e poi, e poi...».
Tanti esordi importanti, per arrivare all’attuale successo sul palcoscenico in «Testimone d’accusa» e sul piccolo schermo nel «Paradiso delle signore». Ma ha avuto il tempo di vivere l’infanzia, l’adolescenza...?
«Un’infanzia un po’ perduta, ed essendo diventata adulta subito non l’ho recuperata. Sì, sono periodi della mia vita che mi sono mancati per il senso di responsabilità che ho sempre nutrito nei confronti del lavoro e poi perché mi piaceva quello che facevo, e mi piace tuttora. Essere una piccola star era complicato: venivo vista come “quella diversa”, che non aveva tempo di giocare, che partiva per i set, e il rapporto con i coetanei è stato molto tosto. Vivevo costantemente in mezzo agli adulti, gente figa, certo, che mi apriva la testa, ma poi tornare nella pipinara dei compagni era dura...».
E veniva bullizzata... Ma non lei non reagiva mai?
«Di solito incassavo, ma non sempre. Ricordo una volta che una ragazzina, evidentemente invidiosa, mentre eravamo nei giardini della scuola durante la ricreazione, prima mi fa le smorfie, poi mi allenta un calcio terribile e scappa. Mi accascio per il dolore, lì per lì non dico niente, ma la vendetta è un piatto che va servito freddo. Qualche giorno dopo, mi capita a tiro e, siccome aveva ricominciato a farmi le boccacce, le sono saltata in testa: un’aggressione talmente forte che mi sono ritrovata un ciuffo dei suoi capelli in mano. Le ho fatto quasi uno scalpo... e non si è più permessa di offendermi».
Nessuna amicizia, nessun affetto a scuola?
«Adoravo una compagna di banco, che mi aveva dato la sua amicizia e non mi sembrava vero essere al centro delle sue gentili attenzioni. Però non so cosa accadde: forse era uscita un’altra copertina con la mia foto oppure stava andando in onda in tv qualcosa dove ero coinvolta... e lei, prima non volle più condividere il banco, poi, nelle gite scolastiche prendeva per mano un’altra bambina. Mi sono sentita un’incompresa, una poveraccia, ne ho sofferto immensamente».
Un’infanzia difficile e con tanti impegni di lavoro... Riusciva a studiare?
«Certo che sì, molto brava in italiano e nelle versioni di latino: le passavo sempre ai compagni. In matematica, una vera schiappa...».
E i compagni la aiutavano?
«Macché... mettevano su certe pile di libri per non farmi allungare l’occhio e copiare il compito in classe...».

Un rapporto difficile con i compagni. Con gli insegnanti andava meglio?
«Ho subito delle discriminazioni anche da loro. Alcuni mi apprezzavano perché capivano il mio impegno nello studio, anche nelle materie che non erano le mie preferite. Altri non tolleravano il mio lavoro extra scolastico. Dicevano: oddio, questa ragazzina ha degli atteggiamenti troppo da adulta... e ho patito delle ingiustizie».
Quali?
«Ne racconto una che non riesco a dimenticare. Alle elementari adoravo la maestra e, durante le lezioni, alzavo sempre la mano quando sapevo rispondere a qualche sua domanda in classe. Proprio quella maestra, che per me era un mito, convocò i miei genitori: disse loro che ero una lecchina nei suoi confronti, che mi agitavo per dimostrare quanto ero brava, che volevo apparire la prima della classe, tutta “io, io, io”... Ci rimasi malissimo».
E non ha più alzato la mano?
«A un certo punto sono cresciuta ed è subentrata l’incoscienza, il menefreghismo».
Tutte queste cattiverie le ha poi concentrate nel personaggio della contessa Adelaide nel «Paradiso delle signore»?
«No! È un personaggio con varie sfaccettature e mi sono ispirata soprattutto a certe nobildonne dell’upper class milanese, che mi è capitato di conoscere e che ho immortalato nella memoria: l’aria di sussiego, l’alterigia, una certa presunzione, il sopracciglio alzato tipo Grimilde, la perfida matrigna di Biancaneve. Un mix condito da grande senso del grottesco e del comico, che mi appartiene per carattere. Impersono Adelaide da cinque anni, ormai la conosco bene».
Non si è stancata di interpretarla?
«No, proprio perché non ha un’unica facciata, cambia costantemente, non è noiosa. Oltretutto, nello sviluppo della trama, per la prima volta mi capita di essere corteggiata e amata da un uomo molto più giovane di me: cosa che non mi è mai capitata nella vita vera, dove mi sono sempre innamorata di uomini a volte molto più grandi di me».
Per caso, si è innamorata anche di Giorgio Strehler con cui ha esordito in teatro, a 17 anni, nello spettacolo da lui diretto, «La donna del mare»?
«In realtà, lui era davvero il più giovane di tutti noi, era un ragazzo, nonostante fosse il più grande d’età. La cosa strana era che mi dava pochissime indicazioni, tanto che pensai: forse gli faccio schifo come recito e preferisce essere accondiscendente. Fu severo solo una volta: io, che sapevo suonare il pianoforte, aprivo la scena proprio eseguendo un brano. Durante le prove, insisteva nel dirmi che, con la mia esibizione, dovevo enfatizzare gli animi degli altri personaggi. Provavo a fare ciò che mi chiedeva ma, non essendo soddisfatto, mi venne vicino e cominciò a incitarmi con una certa violenza. E allora, morta di paura, cominciai a suonare forte, pestando sulla tastiera: ero terrorizzata, lui finalmente ne rimase soddisfatto. Solo col passare degli anni ho capito che, per ottenere certi risultati, occorre essere, se necessario, anche violenti».
Per questo lei ha scelto la boxe come sport?
«Il pugilato non è semplicemente uno sport, è una disciplina con cui l’energia fisica si trasferisce nella mente e, direi, persino nell’anima. È una passione che ti dà il totale controllo di te stesso. E pensare che, la prima volta che mi proposero di praticare la boxe, mi tirai indietro: mi sembrava un’attività troppo fisica, uno sderenamento disumano. Inoltre non amo molto le palestre, dove la gente si pompa i muscoli con i pesi. Con il tempo ho capito che il pugilato poteva aiutarmi a calibrare le mie risorse e, praticandola ormai da anni, mi sono accorta di avere una forza che proviene da una rabbia interiore».
Quale rabbia?
«Durante il mio percorso esistenziale, privato e professionale, ho dovuto tenere a bada molti drammi, storie d’amore private poco fortunate e torti subiti, ma ho incamerato, sono un’incassatrice e sono andata avanti: non mi sento di attribuire colpe a nessuno, sono artefice di tutti i miei sbagli, non credo nella fortuna e nella sfortuna. La boxe è uno sfogo contro le insoddisfazioni e anche i miei difetti, mi insegna a difendermi, attaccando l’avversario calibrando i colpi. Un ottimo meccanismo di confronto».
E come religione ha scelto il buddismo.
«L’ho scelto in un momento particolarmente difficile della mia vita e ho trovato un rifugio: il mantra buddista è una sorta di formula magica, spazza via certe paure, le insicurezze, il terrore dell’abbandono... ti insegna il distacco dalle cose. La vita umana è caduca».
Non avere figli è stata una sua scelta?
«Se metti al mondo un figlio, diventi genitore, quindi una persona responsabile. Ma io, essendo cresciuta molto in fretta, ero già responsabile... di fatto, una genitrice».