la Repubblica, 11 maggio 2023
Sul russo e sull’ucraino
Le nostre tradizioni politico-culturali sono, con quelle tedesche, alla radice dell’equivalenza tra lingua e (etno)nazione che ha dominato un lungo Ottocento europeo in cui la lingua è stata al tempo stesso una bandiera identitaria e il criterio con cui gli statistici hanno identificato la nazionalità intesa come appartenenza. Non deve quindi stupire se, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, molti commentatori hanno spiegato il conflitto usando cartine di regioni ucrainofone e russofone presentate come autoevidenti o hanno paragonato il Donbass all’Istria, proiettando il destino degli italiani della seconda sui russofoni (e quindi russi…) del primo.Le comunicazioni militari dopo l’invasione mostravano però truppe ucraine che parlavano russo ma non per questo resistevano con minor accanimento. L’ipotesi della lingua come “indizio” della nazionalità sarebbe quindi sbagliata? No, ma essa è storicamente determinata, come dimostrano l’Irlanda, dove la lingua ufficiale è il gaelico ma dove si parla ancora inglese come facevano gli insorti contro Londra, o un’America latina dove argentini e uruguayani parlano la stessa lingua ma si sanno diversi. E se è vero che Russia e Ucraina traggono origine dalla Rus’di Kiev, gli italiani, francesi e spagnoli che parlano oggi i loro latini dimostrano che la storia trasforma l’unità in diversità, smentendo l’illusione dell’eternità di lingue e nazioni.Fino a Pietro il grande, inoltre, non si scriveva in russo o in ucraino, ma in uno slavo-ecclesiastico paragonabile al latino dell’Europa medievale, e il russo stesso è una lingua recente, formalizzata a cavallo tra XVIII e XIX secolo quando nacque anche la sua straordinaria letteratura. L’ucraino, formalizzato poco dopo, fu subito represso da un impero russo che nel 1863 lo qualificò come dialetto, impedendone l’uso nell’istruzione o nella stampa. Si spiega anche così perché i contadini ucraini del Donbass, bacino industriale equindi polo di immigrazione dell’impero, in parte modernizzato già a fine Ottocento, siano stati alfabetizzati in russo, così come, senza Waterloo, quelli piemontesi lo sarebbero stati in francese. Bisognò aspettare la rivoluzione del 1905 perché l’Accademia russa delle scienze dichiarasse l’ucraino una lingua, e solo dopo il 1917 esso conobbe il suo primo grande sviluppo, stroncato nel 1932-33 da Stalin. A differenza di Putin questi non credeva che gli ucraini fossero russi, ma era pronto a farne morire milioni di fame, a distruggerne l’élite e a avvicinare scientemente la loro lingua al russo perché diventassero il popolo che desiderava.Dopo la morte del despota la russificazione continuò in modo “dolce” e fu il desiderio di migliorare il futuro proprio e dei figli a spingere milioni di ucraini a russificarsi per andare all’Università o trovare lavori migliori, come era successo agli irlandesi che avevano scelto l’inglese pensando all’America.In Urss il russo si trasformò così per molti in una lingua veicolare, diversa da una bandiera identitaria: parte dei 25 milioni di russofoni che vivevano dopo il 1991 nelle ex repubbliche sovietiche non si sentiva russa, come ha scoperto Putin quando, in nome della difesa del russo, ha dovuto radere al suolo città russofone come Mariupol. Ed è probabile che il pluralismo linguistico dell’Ucraina postsovietica, in cui quasi tutti capivano entrambe le lingue e si parlava anche un loro misto (il surzhik), sia stata una delle cause che hanno portato gli ucraini a preferire il pluralismoeuropeo. La storia insomma può unire ma anche dividere, le nazioni sono fatte di tante cose, e se l’importanza di un mezzo di comunicazione comune è fondamentale, come ci ricorda l’esperienza dell’Unione europea, che non riesce a scegliere una lingua veicolare e soffre quindi della mancanza di una opinione pubblica comune. Ma quel mezzo non è per forza identitario, come dimostrano i paesi africani che hanno, spesso controvoglia, scelto la lingua dei loro ex dominatori.