il Giornale, 10 maggio 2023
I neri di Scerbanenco
Nel 1969 esce un’antologia di ventidue racconti, composta e voluta dallo stesso Scerbanenco, che va a incoronare il breve periodo noir, cominciato nel 1967 con Venere privata, la prima indagine di Duca Lamberti, e destinato a concludersi nell’ottobre del 1969 con la morte dell’autore. Sono ventidue racconti usciti su «Novella», già diventata «Novella 2000», nel 1967. Lo scrittore era stato condirettore della rivista per molti anni, dal 1945 al 1964, quando aveva deciso di lasciare la vita di redazione per dedicarsi solo alla scrittura. All’epoca, era già un autore di romanzi rosa famosissimo, con un seguito di decine di migliaia di lettrici innamorate. Libero da vincoli editoriali, Scerbanenco fa uscire dalla sua penna rosa – o meglio, dai tasti della piccola macchina da scrivere dove aveva battuto infinite storie di relazioni tra esseri umani – trame nere, nerissime. E le più nere mi paiono proprio questi racconti scritti per «Novella». Con il direttore che gli era succeduto, Benedetto Mosca, i rapporti erano ottimi, fino a quando il sarcasmo tagliente di mio padre non rovinò tutto. Mosca scoprì che alle sue spalle il collega lo chiamava con un divertente soprannome, non originalissimo, e si offese. D’altra parte, in Rizzoli ognuno aveva il suo soprannome, ovviamente non proprio gentile: Scerbanenco, per esempio, era il Gemello Kessler, dalla coppia di sensuali gemelle ballerine, allora star della tv in bianco e nero. Nel 1967, la stima reciproca e la fama dell’ex direttore erano ancora tali che Mosca decise di pubblicare sulla rivista una lunga serie di racconti intitolati proprio: Il racconto di Giorgio Scerbanenco. Sono le uniche pagine di narrativa rimaste su «Novella», nata all’inizio del Novecento come raffinata rivista di racconti, e a ciò doveva il suo titolo. Nel corso degli anni, alle novelle si affiancarono le foto degli attori e i relativi pettegolezzi. Già alla fine della direzione Scerbanenco, è l’attualità a farla da padrone, e compaiono sempre più anche i vip, con i loro scandali e le loro bizzarrie. I racconti e i romanzi a puntate diminuiscono fino a svanire, tranne la settimanale incursione nel racconto di Giorgio Scerbanenco. Già dopo l’uscita dei primi due romanzi, il ciclo di Duca Lamberti ebbe un successo inatteso e grandissimo, accompagnato da relativo scandalo. Fece scalpore che di crimini scrivesse un famoso direttore di riviste femminili, un autore moralista, ritenuto ancora oggi «per signore», per buona parte della sua produzione. E ancora oggi quanto disprezzo c’è in quel «per signore»! Chissà come mai, lo stesso stigma non colpisce la letteratura di svago che si rivolge a un pubblico prettamente maschile, che so, lo spionaggio, pieno di ragazze troppo sveglie e aspiranti maschi alfa. Le ragazze sveglie e i finti maschi alfa predominano anche in questi, nerissimi, ventidue racconti, ma siccome Scerbanenco aveva grande esperienza della vita e dei sentimenti, essendo stato autore «rosa» per trent’anni, per lo più fanno una fine miseranda. È difficile parlare di queste storie senza rivelare troppo, spoilerare, come si dice nei social. Tuttavia, rileggendo oggi questi racconti, a più di cinquant’anni dalla loro nascita, appaiono come veri e propri topoi, archetipi del Male e della letteratura crime che seguirà. La sacra triade del crimine, come la definì un investigatore – vero – che amo molto, sesso, denaro e potere (quest’ultimo nella sua accezione più vasta, comprendente invidia, desiderio di rivalsa, vendetta), è qui presente in ogni pagina. A questa triplice motivazione, si aggiungono la forza degli istinti e la naturale aggressività che caratterizzano l’animale uomo. Non siamo una specie mansueta e remissiva, al contrario. E come in un trattato di etologia criminale, i personaggi di questi racconti sono mossi da amori dolenti e perdenti, o da fatali attrazioni sessuali. Molte di queste storie potrebbero essere definite «femminicidi», anche se allora il termine – e il concetto stesso – non esistevano ancora. Oppure i protagonisti sono accecati dalla brama del denaro, per ottenerne potere e supremazia; o la bella vita, guanti di camoscio e ristoranti di lusso; o, semplicemente, la sopravvivenza, una vita più dignitosa per la figlia bambina, la compagna Penelope che ha atteso paziente che il suo Ulisse uscisse di galera. Purtroppo (spoiler), Scerbanenco è Scerbanenco, e il lieto fine è una rarità nelle sue storie come nella vita vera. Vorrei concentrarmi brevemente su due racconti, In pineta si uccide meglio e Una signorina senza rivoltella. Adoro In pineta si uccide meglio per il modo in cui Scerbanenco riesce a far diventare una delle sue passioni, la moda, coprotagonista di una storia nerissima. Negli anni sessanta esplode infatti il colore, colore nell’abbigliamento, nel design. E il rosa entra persino nel guardaroba maschile, e in quello del Gemello Kessler, sotto forma di camicie fatte su misura in eleganti sfumature di rosa e di arancione, di grigio chiarissimo e perla. Qui i protagonisti, un gruppo di giovani troppo svegli, finti musicisti, fuggono dalla polizia tutti vestiti di rosa, coi capelli lunghi o parrucche alla «cofana». È l’ultima moda, le ultime tendenze. Scerbanenco è sempre attento al mondo che lo circonda, e ne ha sempre una sua interpretazione personale. Di questa timida, prima ribellione, coglie l’ingenuità, ma anche la pericolosa superficialità, la pericolosa sensazione che tutto sia possibile, procurarsi un po’ di denaro in fretta, che male ci sarà? Poi però ci scappa il primo morto e tutto cambia. In Una signorina senza rivoltella, la protagonista è una donna brutta, con il nasone, troppo magra. È un personaggio che compare, identica, anche in uno dei romanzi sotto pseudonimo di Scerbanenco, dove è la fidata autista di un trafficante internazionale. È una storia molto dolce, malinconica, in cui tre vite segnate fin dall’inizio, quella di lei, di sua madre, del suo uomo, si intrecciano e si supportano fino all’inevitabile catastrofe. Ogni volta che leggo questo racconto, rabbrividisco. *** Scerbanenco aveva già dedicato un bellissimo romanzo, La ragazza dell’addio, a una giovane donna non bella ma molto benestante, dove però nemmeno i molti soldi riuscivano a salvarla da ripetute, amarissime umiliazioni. A fianco della protagonista, in questo racconto compaiono alcuni temi che caratterizzavano la criminalità dell’epoca: la malavita sempre più internazionale, l’eredità della guerra (contatti, vie di contrabbando, fazioni politiche che divengono fazioni economiche...), il traffico di armi, stupefacenti e donne, ancora vittime di una rigidissima gabbia di norme, usanze e pregiudizi. Sono temi che, in un modo o nell’altro, appaiono in tutti questi ventidue racconti, e continueranno poi a riempire, ancora oggi, non solo le pagine dei narratori, ma anche quelle dei faldoni giudiziari e della cronaca nera. Scerbanenco, in queste brevi storie, ci regala delle dure istantanee del lato più crudele degli anni sessanta. Poco dopo, inizierà il terrorismo, la criminalità da economica si farà soprattutto politica. E spietata. Dopo aver letto queste storie, possiamo meravigliarcene?