il Giornale, 10 maggio 2023
Il business dell’editoria scolastica
Il giro d’affari dei libri scolastici – tenetevi forte – sfiora il miliardo di euro. L’ultimo rapporto sullo stato dell’editoria italiana (Aie 2022) certifica che il settore dei libri di testo vale da solo la bellezza di 780,1 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti i 335 milioni del comparto banche e dati e servizi Internet. L’editoria scolastica, dunque, è un terzo abbondante dell’intero mercato librario nazionale. Si può tranquillamente dire che i libri della scuola sono, dopo gli stipendi pur striminziti degli insegnanti, il più grande affare scolastico che coinvolge editori, librai, burocrazie varie. Giovanni Papini aveva capito tutto già nel 1914, quando nella sua invettiva Chiudiamo le scuole diceva che sulle scuole «ci mangiano ispettori, presidi, bidelli, preparatori, assistenti, editori, librai, cartolai» e – aggiungeva – «nessuno pensa al miglioramento della nazione, allo sviluppo del pensiero e tanto meno a quello cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli». Verrebbe da dire: quanta ingenuità in queste parole se confrontate con le cifre da capogiro dell’Associazione italiana editori. Tra aprile e maggio nelle scuole d’Italia si scelgono i libri di testo del prossimo anno. Gli insegnanti scelgono i libri (in gergo burocratico si dice «adozione»). La scelta, però, è complicata. Non solo per l’abbondanza dei manuali di ogni ordine e grado, ma anche e soprattutto perché è vincolata a tutta una serie di parametri e alla fine risulta essere una scelta obbligata. È vero che il professore o la professoressa di turno può anche non adottare alcun libro, ma è altrettanto vero che si tratta di un caso limite. Infatti, gli insegnanti tendono ad adeguarsi alle abitudini e poi colui che può davvero scegliere di rinunciare al libro di testo confidando in dispense personali è non solo una mosca bianca, ma anche il docente titolare che deve avere la certezza che il prossimo anno insegnerà proprio in quella classe per la quale non sta indicando alcun testo. Tutti gli altri dovranno scegliere in base alla scelta collettiva del dipartimento (eh, sì, nella scuola italiana, che Valitutti definiva con ironia e angoscia «scuola dottorona», ci sono i dipartimenti!). Le scelte o adozioni dei libri devono, inoltre, non sforare un determinato tetto di spesa che si aggira intorno ai 320 euro. Ecco perché, oltre alla possibilità di scegliere il testo stampato, c’è anche l’altra di indicare l’ebook. Il quale costa notoriamente di meno. Non, però, quello scolastico: se un ebook comune costa meno di 5 euro, l’ebook scolastico costa circa 20 euro. Il risparmio c’è, ma non così decisivo. Soprattutto se si considera che l’alunno, cioè la famiglia, deve avere un tablet. Così la scuola digitale, verso la quale stanno spingendo gli investimenti tecnologici del Pnrr, da un lato risparmia sulla carta, che è aumentata di più del doppio, e dall’altro spende sull’aggiornamento tecnologico che grava in parte sulle famiglie. Insomma, intorno alla questione libraria gira tutto un mondo, oltre che un sacco di soldi per quegli specializzati editori del settore riconosciuti da Sua Maestà il Ministero. Eppure, qualche buona novità ci potrebbe essere. Se del libro di testo si può fare a meno, se si può decidere di puntare sul digitale, vuoi vedere che a scuola si possono riportare addirittura i classici: invece del manuale su Manzoni, leggere direttamente I promessi sposi, invece della spiegazione di Kant leggere direttamente la Critica del giudizio. Sarebbe il miglior modo per smentire il sarcasmo di Longanesi: «Tutto ciò che non so l’ho imparato a scuola».