La Stampa, 10 maggio 2023
Sabot ovvero sabotaggio
Trovo entusiasmante lo sciopero degli sceneggiatori di Hollywood in protesta, tra l’altro, contro l’intelligenza artificiale da cui temono di essere sostituiti, anche solo parzialmente. Minacciano di spoilerare i lavori in uscita (di svelarne il finale), e a me sono venuti in mente i sabot, le calzature così detestate da Nanni Moretti nel suo ultimo film. Sabotaggio, dal francese sabotage, da sabot, gli zoccoli che all’alba della rivoluzione industriale gli operai lanciavano nei macchinari per distruggerli. Da allora, la tecnica sostituisce l’uomo, e la rivoluzione digitale è stata un’accelerazione vertiginosa, e adesso l’intelligenza artificiale comincia ad aggredire i lavori intellettuali, vale anche per il giornalismo. Per ora, soltanto nelle mansioni più elementari e ripetitive. Sempre Moretti, sempre nel suo ultimo film, è annichilito dai produttori di Netflix che gli chiedono entro i primi quattro minuti la scena what a fuck, il supercolpodiscena. Il modo di fare fiction – specialmente negli Stati Uniti ma non solo: in Italia siamo lì – da tempo nasce soprattutto in scuole di scrittura creativa da codici, regolamenti, decaloghi. E infatti i romanzi e le serie spesso si rassomigliano. E piacciono. Ma dipendono un pochino meno dall’ingegno e un pochino più dalla meccanicità. Gente come William Faulkner o Arthur Miller si sarebbe buttata da una rupe piuttosto di cedere a una specie di catena di montaggio. E del resto sarà dura per l’intelligenza artificiale sostituire quelli alla Faulkner o alla Miller. Con gli altri, comincia a giocarsela. A loro, un paio di secoli dopo i sabot, diamo il benvenuto sulla Terra.