il Giornale, 10 maggio 2023
Intervista a Rosalia Missoni
C’è una foto che, più di tutte, permette di comprendere la storia d’amore tra Rosita e Ottavio Missoni. È in bianco e nero, come tutte le foto romantiche che si rispettino. Entrambi indossano una maglia scura e sorridono. I loro volti sono veri. Non ci sono artifici tecnici. Si vedono le tracce del tempo passato e consumato insieme. Lei si appoggia alla schiena di «Tai» e lui, invece, alza le braccia per prendere la nuca di Rosita. Le maglie si confondono e si mescolano, diventando una cosa sola. I protagonisti di questa storia sono due. Uniti, fino al 9 maggio di 10 anni fa, alla morte di Ottavio. Allo stesso tempo diversi e complementari.
Signora Rosita, quando ha visto per la prima volta Ottavio Missoni, l’uomo che sarebbe poi diventato suo marito?
«Era il 1948, alle Olimpiadi di Londra. Avevo deciso di passare l’estate in Inghilterra dalle suore. Nel programma, oltre alle visite ai musei e ai castelli, avevano inserito anche la giornata di apertura delle gare olimpiche».
Dove vede Ottavio...
«C’è questo italiano con la maglia 331. I miei nonni materni erano nati nel 1877 e quindi ci davano sette lire, sette caramelle. Il sette era il numero fortunato della mia famiglia. Quando vedo il 331, che sommato fa sette, mi convinco che avrebbe vinto. E così è successo».
Quando il primo incontro?
«L’ho visto uscire in uniforme olimpica, con la giacca di panno azzurro, con il simbolo delle Olimpiadi sul taschino. Vengono a prendermi in collegio due amiche. Ricordo la mamma di una delle due che mi dice: Hai visto che bel ragazzo?. Io gli davo 21 anni, in realtà ne aveva 27. Lo guardo e divento rosso-fiamma. È stato un colpo di fulmine».
Quindi Ottavio l’ha conquistata con la simpatia?
«Soprattutto con la simpatia. Per la festa dei miei 17 anni propongo ad una mia amica di invitare Ottavio. E lui arriva. Nel mio libro dei ricordi conservo ancora questa pagina in cui c’è una cicogna con un fardello in bocca e la scritta: Viva la vita è nata Rosita. E poi: È così bella la vita, viva Rosita. In fondo, prima della firma, una vignetta con una donnina piccola con sette o otto figli, in alto un signore con la tuba in testa, e la scritta Auguri di cuore, Ottavio Missoni».
In pratica una proposta di matrimonio...
«All’inizio ci scrivevamo. Mi mandava molte cartoline perché era sempre in giro. È stato prigioniero ad El Alamein, poi ha fatto quattro anni di prigionia in Africa ed è tornato a casa nel 1946 perché non aveva firmato per Badoglio. In prigionia ha potuto allenarsi per poi arrivare alle Olimpiadi. E così arriviamo al 1948, l’inizio della nostra storia».
Per «Tai» la Dalmazia è sempre stata una parte del cuore.
«Ottavio era nato a Ragusa, che era un porto franco del Mediterraneo. È stato un innamoramento anche per me: quando sono arrivata ho visto una città con un mare e delle isole bellissime. La Dalmazia vive nel cuore dei dalmati anche se non è più una regione italiana. Lui la viveva con nostalgia».
E Missoni è stato anche il sindaco del libero comune di Zara in esilio.
«Avrebbero voluto riconfermarlo a vita. Lui non è mai stato un revanscista, ma anzi si è sempre adoperato per una pacificazione, sottolineando la mediterraneità della Dalmazia. Ma soprattutto sperava che italiani e croati potessero vivere serenamente conservando lingua e tradizioni».
E poi c’è l’azienda che avete creato insieme.
«Lui aveva un senso del colore straordinario. Quando aveva bisogno di un colore che non era nella tavolozza dei filati ne metteva insieme due o tre finché non riusciva ad ottenere la sfumatura che cercava. Era un vero artista. Io provenivo da una famiglia di industriali tessili e così ci siamo completati. La passione per la moda era infatti mia. Lui diceva sempre che si lavora per vivere e non il contrario».
Lo sport è stato una costante di tutta la sua vita.
«Dopo aver abbandonato l’agonismo ha completamente smesso, tranne per il nuoto. Poi ha ripreso con il tennis. Faceva i master in atletica leggera in diverse discipline. Come diceva lui, prima di iscriversi leggeva i necrologi. Perché l’importante è esserci».