Corriere della Sera, 10 maggio 2023
Intervista a Paolo D’Achille, presidente della Crusca
Professor Paolo D’Achille, che ruolo ha l’Accademia della Crusca, di cui lei è presidente, nel 2023 a 440 anni dalla sua costituzione?
«È un punto di riferimento per quel che riguarda l’italiano del passato e del presente. Da una parte si tratta di continuare a favorire lo studio dei testi antichi, fornendo gratuitamente anche agli studiosi gli strumenti lessicografici: per questo disponiamo di uno scaffale digitale con diversi dizionari. Ma con gli anni Duemila c’è stato un maggior coinvolgimento nella società e nel mondo della politica, perché si sono presentati nuovi problemi dovuti a grandi fenomeni sociali come la globalizzazione e i movimenti migratori. Uno di questi problemi è la diffusione dell’inglese».
Come risponde la Crusca?
«La Crusca Scuola organizza corsi di aggiornamento in presenza e a distanza, e offre conferenze non solo sull’italiano letterario ma anche sulla pratica testuale. Un altro tema è la didattica della lingua e il rinnovamento dell’insegnamento della grammatica. Abbiamo anche un servizio di consulenza linguistica: da una parte con il foglio storico “La Crusca per voi”, che dopo la flessione dovuta al Covid andrà rilanciato; dall’altra con una redazione che risponde in rete tre volte alla settimana a quesiti che arrivano da tutta Italia e anche dall’estero».
I dubbi prevalenti?
«Un ventaglio molto ampio. La transitività e l’intransitività del verbo, come sostituire voci inglesi con termini italiani, se certi usi sono da considerare regionali o nazionali, come si chiamano gli abitanti di città straniere».
Nuovi impegni della Crusca?
«Negli ultimi anni si nota un accentuato distacco tra l’italiano contemporaneo e la lingua letteraria. È ovvio che la lingua letteraria è diventata una conoscenza passiva e non attiva. La forma pronominale “ei” non la adoperiamo ma la conosciamo, grazie alla scuola, attraverso “Il Cinque Maggio” di Manzoni (“Ei fu”). L’italiano è l’unica lingua che non ha tagliato i ponti con la tradizione medievale perché era rappresentata da Dante, Petrarca, Boccaccio, personalità straordinarie per la civiltà non solo italiana ma mondiale. Pur tuttavia, il distacco dalla lingua del passato è aumentato e bisogna colmarlo nell’insegnamento. È un problema che si pone ancora più seriamente per i nuovi italiani, senza che questo comporti fenomeni di selezione o di ridimensionamento della democrazia».
È un equilibrio delicato nella scuola di massa.
«Vale anche per la scrittura che, come ci indicano i neurolinguisti, non è una pratica naturale, ma una pratica che la scuola deve contribuire a diffondere anche con l’aiuto delle nuove tecnologie».
Le nuove tecnologie hanno un effetto duplice.
«Certo, semplificano gli elementi strutturali della scrittura. Per esempio, le pratiche di scrittura quotidiane, sullo smartphone, non richiedono una rilettura, e questa rapidità rischia di trasferirsi nella redazione di un testo argomentativo che esige più riflessione. Siamo abituati a scrivere in velocità e a correggere automaticamente, commettiamo errori di pura esecuzione digitando male, capita anche a me».
Per non dire dei testi ufficiali.
«Con i testi ufficiali non si scherza. La sentenza di un giudice deve essere chiara e scritta bene. Dal mondo della giurisprudenza invece arrivano allarmi perché il numero dei vincitori nei concorsi è inferiore ai posti disponibili proprio a causa delle carenze nella scrittura».
È anche vero che le lacune interessano non solo le nuove generazioni.
«Sì, ma nelle generazioni precedenti il problema si giustifica di più con il lungo squilibrio che c’è stato in Italia a causa dell’analfabetismo: l’italiano era per molti una lingua acquisita a scuola, mentre la lingua madre era il dialetto. Ora i dialetti si continuano a parlare, anzi vanno salvaguardati, ma questo deve contemperarsi con un sicuro possesso della lingua materna».
Come affronta la Crusca l’invasione dell’inglese?
«Bisogna considerare vari aspetti. L’italiano non ha la stessa forza del francese e dello spagnolo nel resistere all’inglese. Il francese per un maggiore senso nazionale, ma anche perché ha un più ampio mercato internazionale, cosa che vale ancora di più per lo spagnolo. E quindi francesi e spagnoli sono meno disposti degli italiani a ospitare forestierismi non adattati».
Di recente esponenti del governo si sono espressi a difesa dell’italiano con toni censori. Che ne pensa?
«Si possono fare delle raccomandazioni ma non delle prescrizioni. Per esempio, sarebbe importante che le riviste scientifiche potessero avere almeno un abstract in italiano. È dannoso delegare tutta la letteratura scientifica all’inglese: non ci si può accontentare solo della tradizione, rimandando il proprio prestigio al melodramma, alla musica, alla gastronomia o a Dante, Petrarca e Boccaccio. Bisogna che l’italiano di oggi abbia una sua presenza attiva in campo nazionale e internazionale. Galileo per primo, in tempi in cui la scienza era veicolata dal latino, ha adottato l’italiano, e proprio per rispondere a Galileo all’estero hanno dovuto studiare la nostra lingua. Certo oggi non possiamo pretendere questo, anche se poi tutto cambia nel lungo periodo. In passato c’è stata un’egemonia francese, oggi c’è l’inglese, ma in futuro chi lo sa, forse ci sarà lo spagnolo…».
In Italia neanche il proibizionismo fascista ha prodotto grandi risultati.
«La politica linguistica fascista ha messo al bando le parole straniere e anche le lingue delle minoranze, compresi in parte i dialetti. Quindi si capisce che, per reazione a politiche così punitive, nei primi anni della Repubblica il nostro Paese sia stato meno sensibile a questo problema, oltretutto avendo un mercato internazionale di nicchia».
L’italiano resta comunque tra le più importanti lingue di cultura.
«È vero che è una lingua molto studiata, ma da un numero di persone comunque piuttosto ridotto. Non basta il prestigio di alcune parole come “pizza” e “ciao”, non basta l’attrazione per lo stile di vita, per l’ospitalità degli italiani, per la gastronomia, e non basta neanche il fatto che gli emigrati italiani all’estero vogliono riscoprire la lingua dei nonni e dei bisnonni…».
Fino a che punto la subalternità politico-economica incide sulla dipendenza linguistica?
«In effetti, il fatto che l’italiano assorbe molte o troppe parole inglesi deriva dalla forza economica e politica soprattutto degli Stati Uniti, ma anche dalla dipendenza che abbiamo avuto e continuiamo ad avere sul piano culturale. Una lingua si diffonde grazie al prestigio di cui gode il Paese. E non c’è dubbio che l’informatica, l’economia, le ultime tendenze della musica e delle mode vedono l’egemonia anglo-americana. Ci vorrebbe un maggior investimento nella ricerca e un impulso maggiore della creatività e della cultura, che non guardi solo al passato o alla cucina».
Ma ci sono davvero provvedimenti legislativi possibili per arginare gli anglismi?
«Senza fare nuove leggi di politica linguistica, basterebbe applicare quel che già c’è. Per esempio, abbiamo una sentenza della Corte Costituzionale che invita a mettere l’italiano sullo stesso piano dell’inglese nell’insegnamento universitario. È indubbio che la lingua delle scienze e della medicina abbia bisogno di una diffusione anche in italiano se non altro per comunicare con il grande pubblico… E poi, il mondo delle istituzioni e della politica è necessario che si faccia capire: è inopportuno adoperare termini sconosciuti alla parte più fragile della popolazione, gli anziani o le persone meno istruite».
Un problema molto serio di cui si discute sempre più è il genere. La Crusca al riguardo ha sempre preso posizioni nette.
«Ci è arrivata di recente una domanda del Comitato Pari Opportunità della Corte di Cassazione. Abbiamo consigliato una massima presenza del femminile quando la carica è ricoperta da una donna, per i nomi di professione, perché l’italiano lo consente. Non è necessario ripetere sempre nei testi giuridici “signore e signori”, “lettori e lettrici”. Parlando di cittadini la Costituzione comprende anche le cittadine, ma nei testi nuovi si può dire “cittadinanza”, come diciamo “persone” per intendere inclusivamente uomini e donne. Però non si può ignorare che la nostra lingua ha il maschile plurale onnicomprensivo».
Che ne dice dell’asterisco e della schwa?
«All’interno di gruppi ristretti, vanno benissimo, ma la Crusca sconsiglia di adoperarli a livello ufficiale. Oltretutto questi segni creano problemi di lettura ai dislessici. Altro discorso è l’inclusività sociale, dove le sensibilità sono diverse ed è giusto che ci sia la massima apertura. Non bisogna confondere il genere naturale in tutte le sue varianti con il genere grammaticale».
La scuola linguistica italiana rimane sempre ad alto livello?
«Sì, anche perché abbiamo avuto grandi figure di studiosi, penso a Tullio De Mauro, Luca Serianni o Francesco Sabatini, che è stato il mio maestro e che si è dato molto da fare per il rinnovamento della didattica della grammatica. Ha insistito sull’importanza di una formazione linguistica in università orientate all’insegnamento: i docenti devono avere cognizione dei processi linguistici e delle nuove metodologie di apprendimento. Per tutti questi problemi, la Crusca c’è».