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 2023  maggio 10 Mercoledì calendario

Biografia di Stefano Domenicali raccontata da lui stesso

Stefano Domenicali è il primo italiano a ricoprire la carica di presidente e di amministratore delegato di Formula 1, la società che detiene il marchio e la proprietà dei diritti finanziari e commerciali dei gran premi delle super car guidate da Max Verstappen e Lewis Hamilton. Formula 1 è stata acquisita dagli americani di Liberty Media nel 2016 per 4,4 miliardi di dollari. L’arrivo di Domenicali al vertice della Formula risale al 2021, in precedenza ha lavorato oltre venti anni in Ferrari, vincendo 14 titoli tra campionati costruttori e campionati piloti. Per quattro anni è stato anche amministratore delegato di Automobili Lamborghini.
Da bambino giocava con le macchinine?
«Ho iniziato a guardare auto e moto fin da piccolo, nascere a Imola mi ha fatto crescere respirando il profumo delle corse, una bella aria di competizione e sport, di gente che arrivava da tutto il mondo in una piccola cittadina. Non potevi non essere appassionato di corse e di Formula 1».
Il suo primo Gran premio di Formula 1?
«Ricordo molto bene il 1982. A Imola le scuderie come Lotus, Brabham e McLaren, ossia il gotha dell’automobilismo britannico, decisero di scioperare, e alla fine del gran premio ci fu il tradimento di Didier Pironi, che in Ferrari rubò il podio al compagno di squadra Gilles Villeneuve. All’epoca con i miei amici andavo alla curva Tosa e la sera prima della gara restavo sveglio tutta la notte, tanto che il giorno del Gran premio si faticava a tenere gli occhi aperti. Ma l’atmosfera era unica: la città viveva quell’evento in modo totalizzante».
Nel 1991 l’assunzione in Ferrari, ci resterà 23 anni. Il primo incarico?
«Mi occupavo di affari fiscali e societari. Avevo spedito il curriculum in giro e tra gli altri lo avevo inviato in Ferrari. Mi sono laureato ad aprile a Bologna in Economia e Commercio e mi hanno assunto il 1° giugno 1991, sebbene la funzione non fosse quella che desideravo, si trattava pur sempre della Ferrari. Poi i casi della vita mi hanno portato a occuparmi dell’autodromo del Mugello; due anni dopo, nel 1993, sono diventato responsabile controllo di gestione nella stagione in cui è arrivato Jean Todt alla guida della squadra corse».
Nel 2014 lascia Maranello, con quale ruolo?
«Ero diventato il capo della gestione sportiva al posto di Todt».
Dopo Ferrari è passato in Audi e, poi, nella controllata Automobili Lamborghini. Come è stato lavorare per i tedeschi?
«È stato complicato perché mi sono trovato in una organizzazione molto strutturata, per me qualcosa di nuovo. Mi sono messo in gioco e ho compreso le dinamiche di in gruppo articolato come il mondo Volkswagen a cui fanno capo sia Audi sia Lamborghini».
Nel suo periodo al vertice di Automobili Lamborghini i ricavi sono raddoppiati, ci voleva un italiano?
«Ci voleva una scelta di prodotto corretta. Ci siamo riusciti lanciando la Urus e la Huracan, due modelli di auto che hanno cambiato l’immagine dell’azienda, il nuovo super suv Urus è stato la chiave di volta».
Ferrari e Lamborghini sono le invenzioni di due uomini fuori dall’ordinario di nome Enzo e Ferruccio. Cosa resta della loro eredità?
«Rimane la lezione di uomini che hanno fondato e plasmato le loro aziende. Due personaggi che hanno caratterizzato il territorio dell’Emilia-Romagna, Enzo Ferrari partendo da una visione sportiva, e Ferruccio Lamborghini fabbricando trattori, sono storie parallele di un’unica terra. Entrambi hanno lasciato il segno nel panorama automobilistico mondiale».
Ha mai pensato di correre in auto o in moto?
«A dire il vero mai, sono molto prudente. A Londra, dove abito, neanche guido. Però sono stato sempre molto affascinato dagli aspetti organizzativi dello sport, anche quando, per esempio, giocavo a pallacanestro».
In Emilia-Romagna oltre che di motori si discute di politica. In casa sua c’era passione per la politica?
«La mia era una famiglia tipica della nostra terra, dove convivevano la dimensione di Peppone e di don Camillo, ma sempre con filosofia e logiche di grande equilibrio. Oggi vedo molte polemiche sterili senza guardare alla progettualità vera».
Di trent’anni passati nel mondo delle corse che cosa non dimentica?
«Personalmente ricordo la vittoria in Ferrari del campionato di Formula 1 nel 2000 a Suzuka in Giappone, così come non dimenticherò mai il 2008, quando vincemmo il campionato costruttori e perdemmo il campionato piloti all’ultimo giro dell’ultima gara. Sono momenti indimenticabili che nella loro durezza ti fanno crescere, altrimenti vuole dire che non sei uno sportivo in grado di migliorarti nei momenti di difficoltà».
Il pilota migliore di sempre?
«In ogni epoca ci sono campioni irraggiungibili e, quindi, ogni stagione va contestualizzata, per quanto mi riguarda e per come l’ho vissuto a livello professionale e personale non ho dubbi: Michael Schumacher».
Perché l’ultimo italiano a vincere un campionato mondiale di Formula 1 è Alberto Ascari nel 1953, 70 anni fa? Dopo cosa è successo?
«Abbiamo vissuto più di un’epoca di piloti forti, che però non avevano il quel momento la macchina giusta. Ma credo che, senza fare nomi, tra non molto avremo dei nuovi grandi campioni italiani».
Come sono i piloti dell’ultima generazione?
«Ogni generazione è diversa dalla precedente: si pensi ai piloti latin lover, poi agli spericolati e agli eroici. Oggi sono tutti grandissimi professionisti, consapevoli dell’importanza di essere ambasciatori nel nostro sport anche sui social media, ragazzi cioè capaci di condividere con i tifosi le stesse passioni. Tra l’altro sono ormai tantissime le ragazze che seguono la Formula 1».
Lei in Ferrari ha lavorato con Montezemolo.
«Un presidente che ha caratterizzato un lungo periodo dal 1991 al 2014. Montezemolo ha definito e connotato la Ferrari amando l’azienda e la squadra, un uomo molto competente che chiedeva tanto».
Poi è subentrata la gestione Marchionne. Era davvero così duro?
«Marchionne è il manager che ha salvato la Fiat, con un’intelligenza sopraffina e, per come l’ho conosciuto, un lavoratore incredibile. Come tutte le persone di qualità non sempre era facile lavorarci, perché ti portava allo stremo. Dovevi capire come gestire l’equilibrio tra la tua professione e la tua vita privata».
Nel giorno del suo matrimonio in molti si aspettavano che arrivasse con una fuoriserie e invece si è presentato con un’utilitaria...
«Sono arrivato con la Toyota di mia suocera, d’altronde non ero un personaggio e mi sembrava fuori luogo guidare una macchina esagerata».
C’è un’auto dei suoi sogni?
«Potrà sembrare incredibile ma sono innamorato da sempre delle macchine piccole e con grande personalità, per me la 500 è una macchina meravigliosa e me la sono anche comprata».
La prima auto che ha guidato?
«Era una Fiat Uno di un colore azzurrino inguardabile, dopo quella sono passato a una Giulietta Alfa Romeo color crema di mio padre».
Come si mantiene l’interesse dei costruttori di auto per la Formula 1 che utilizza motori endotermici mentre l’industria punta sull’elettrico?
«Semplice: noi abbiamo una proposta di motori ibridi e il motore della Formula 1 dal 2014 è uno dei più efficienti in assoluto. Nel 2026 utilizzeremo nuovi carburanti sostenibili, da quando abbiamo annunciato questo progetto tutti i costruttori sono interessati a tornare in Formula 1. Smettere di produrre i motori termici dal 2035 soltanto in Europa è una soluzione poco comprensibile vista la dimensione del mondo. Vale la pena ridiscuterne, senza guerre di religione».
Quanto è cambiata la Formula 1 rispetto a quella dei suoi inizi?
«Moltissimo, dal punto di vista tecnico, sportivo e della sicurezza. Resta però uno sport dove la tecnologia è al servizio di piloti, ingegneri e tecnici».
Il limite di spesa a 140 milioni di euro per singola scuderia alla lunga si rivelerà un limite allo spettacolo e alla competitività delle vetture?
«Noi riteniamo sia un vincolo che consente ai diversi team di competere alla pari, perché oltre alla dimensione tecnica e sportiva si introduce la dimensione finanziaria».
Come le hanno proposto di andare a fare il capo della Formula 1?
«Con una telefonata inaspettata. In Lamborghini stavo molto bene e non pensavo di tornare in Formula 1, il mio predecessore mi ha chiamato per vederci a Monza nel 2020, nel giro di poco tempo ho dovuto fare una scelta».
Questa edizione del campionato prevede 23 gare, il più alto numero di sempre. Perché?
«Una volta si faceva fatica a fare 15 Gran premi, ci sono stati periodi in cui chi gestiva l’organizzazione delle corse doveva pagare per lo svolgimento delle gare. Adesso abbiamo trovato la dimensione giusta, c’è tantissima domanda e potremmo farne di più, ma credo che 23 gare siano il numero corretto, al massimo 24».
Un nuovo Grand prix dove si potrebbe correre?
«Stiamo cercando di capire se si riesce a trovare qualcosa di giusto in Africa».
Lei deve essere imparziale e non tifare, come ci riesce da italiano e dopo 23 anni di Ferrari?
«Cercando di pensare alle responsabilità che ricopro. Chiaro che una parte di me vuole vedere l’Italia davanti, ma devo pensare con imparzialità e, poi, penso che se la Ferrari e i Gran premi italiani vanno bene alla fine va a beneficio di tutti i protagonisti della Formula 1».
E le credono?
«Questo fa parte del gioco».