Corriere della Sera, 10 maggio 2023
Ritratto di Giampaolo Rossi
Sa già che il bersaglio grosso è lui, Giampaolo Rossi, direttore generale in pectore della Rai, accanto all’amministratore delegato Roberto Sergio, e tra un anno (è il patto) al posto di quest’ultimo. Romano, classe 1966, formazione cattolica all’Istituto salesiano Villa Sora di Frascati, laurea in Lettere con lode alla Sapienza, ha visto Giorgia Meloni crescere come leader e gode della sua fiducia. Non che gli sfugga che i nemici non stanno solo a sinistra: Lega e una parte di FdI gli hanno fatto la guerra e non gli concederanno nulla. Ma a Rossi prude di più quella sorta di esame del sangue che il mondo culturale da lui avversato ha già iniziato a fargli, andando a spulciare vecchie pubblicazioni e rivelando che ha cancellato i profili social, chissà perché.
Due cose proprio non gli vanno giù: la definizione «fascista» e la fama di filoputiniano. Rispetto alla prima snocciola la sua storia, sottoponendosi alla fine a quell’esame che in linea di principio rifiuta. E si parte dal padre Guelfo, per quasi 30 anni il più stretto collaboratore di Franco Maria Malfatti, democristiano doc, più volte ministro, presidente della Commissione europea. E poi la mamma, da «giovane italiana» ad antifascista, quando vide il padre fervente mazziniano venire emarginato per non aver preso la tessera fascista. Quindi nessuna nostalgia per il Duce, ma la pretesa che quel periodo venga definitivamente storicizzato. Un compito che si è dato, quando, ben dopo essere entrato a 15 anni nel Fronte della Gioventù «perché erano gli unici a invocare la Patria, come il nonno», incontrò all’università Alessandro Giuli, Pietrangelo Buttafuoco, Angelo Mellone, sulle orme di Marcello Veneziani, Giano Accame e Gennaro Malgieri. Di quei tempi Rossi ricorda quando, in occasione di un 25 aprile, organizzarono alla Sapienza un confronto tra Accame e il comunista Antonello Trombadori, che, attaccato dai centri sociali, avrebbe rivendicato la necessità di «una memoria condivisa».
La militanza
A 15 anni l’ingresso nel Fronte della Gioventù: «Gli unici a invocare la Patria, come il nonno»
Liquidato così il passato remoto, quello più recente, e in particolare la deriva filoputiniana, scatena in Rossi una replica formale: «Gli articoli di cui si è scritto sono relativi a 6-7 anni fa: in termini politici, un’era geologica. Allora una buona parte delle cancellerie europee realizzava accordi con la Russia e una grande parte degli analisti ne auspicava l’ingresso nell’orbita euroasiatica. La Russia era schierata contro la minaccia jihadista». E ora? «La scelta di invadere l’Ucraina ha cambiato il mondo e anche il giudizio su Putin e sul suo operato. L’invasione di uno Stato sovrano e la violazione di ogni elementare norma del diritto internazionale relega la Russia fuori dal consesso civile».
Poi c’è il presente e l’accusa di voler stravolgere la narrazione corrente del Paese. Ma la rivoluzione non sarà un ritorno al passato, allo schema delle reti. «I generi li abbiamo inventati con l’ad Fabrizio Salini», rivendica. Quindi? Il primo anno bisognerà mettere in sicurezza l’azienda: senza canone, si ricorrerà alla fiscalità generale, non certo alla pubblicità. Poi la Rai dovrà tornare a produrre, come sta già facendo con le fiction, anche format. E la narrazione? L’idea che il servizio pubblico debba ricostruire il complesso immaginario di tutte le narrazioni sarà attuata attraverso un riequilibrio. La sua ricetta: basta solo intellettuali di sinistra nei talk, basta soltanto monologhi che descrivano un’Italia poco inclusiva a Sanremo e spazio a fiction su personaggi come Gabriele D’Annunzio. Altro che Fedez.