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 2023  maggio 09 Martedì calendario

Intervista a Juan Silveira dos Santos

Per Rudi Voeller era «come Aldair». E questo già è un timbro di qualità. Juan Silveira dos Santos, oggi dirigente del Flamengo, è stato cinque anni a Leverkusen e cinque nella Roma. Dalla Germania è andato via tra gli applausi, Roma l’ha lasciata in punta di piedi. Ma un pezzo di cuore è rimasto qui. «Due città, due ambienti completamente diversi. In Germania sono stato bene, Roma mi ha conquistato. Non c’è la possibilità di giocare lì e non innamorarsi della squadra e della città».
E l’esperienza al Bayer come è stata?
«Mi ha aperto le porte all’Europa. Sono un tipo tranquillo, Leverkusen è una città un po’ così. Ricordo anche di aver affrontato la Roma in Champions: era quella volta in cui Totti diede un pestone a Ramelov».
La Bundesliga che campionato è?
«È cresciuto molto negli ultimi anni, ma anche quando c’ero io me la dovevo vedere con attaccanti di spessore, c’erano calciatori come Roque Santa Cruz, Roy Makaay, Jan Koller, Giovane Élber».
E poi, perché se né andato?
«Avevo voglia di sole. Ed è arrivata la Roma...».
Gliel’ha consigliata Voeller?
«No, lui non me ne parlava, lo ha fatto solo quando ha saputo che ero in trattativa e mi ha raccontato un mondo che poi ho scoperto e goduto da vicino. Non aveva torto: Roma è una città meravigliosa e lui me l’ha descritta proprio così, con passione. Rudi è molto legato al suo passato in giallorosso».
Perché ha scelto Roma?
«Daniele Pradè, all’epoca ds dei giallorossi, mi aveva prospettato questa possibilità e ho accettato. Roma ha una grande tradizione con i brasiliani, da Falcao a Doni, poi lì ha giocato per tanti anni il mio idolo Aldair. Roma è diventata la mia passione, mentre il Flamengo è stato il mio amore».
A Roma ha trovato Spalletti, che ha appena vinto lo scudetto a Napoli.
«Se lo merita. È un allenatore incredibile, un grande maestro di tattica, il top nel preparare le partite. Mi ha insegnato molto e se ho giocato fino a quaranta anni, il merito è suo. Il migliore che ho avuto».
A Roma ha vinto una Coppa Italia e una Supercoppa, poco, forse?
«Sì, mancano un paio di scudetti. Quello con Ranieri è il più clamoroso, perderlo dopo essere andati in testa ancora mi brucia. In fondo abbiamo sbagliato solo mezz’ora con la Sampdoria. Mentre con Luciano abbiamo sempre inseguito, sapevamo che era difficile. Ma si giocava bene al calcio, quella squadra era spettacolare».
Il suo momento più basso?
«Il derby, quando sono stato insultato dalla Curva della Lazio. Mi sono fermato per dare un segnale, bisognava darlo. Ma vedo che è cambiato poco. Il razzismo è una piaga e non c’è solo in Italia. Le assicuro che pure qui in Brasile, o in altre zone del Sud America, lo subiamo tanto. Purtroppo è una questione di cultura».
C’è anche la sfortunata serata contro l’Arsenal da ricordare come momento negativo?
«Abbiamo perso dopo una partita eroica. Tanti infortunati, ho fatto gol e poi sono dovuto uscire. Non dovevo nemmeno giocare. Nonostante le difficoltà abbiamo sfiorato l’impresa, ma Julio Baptista sbagliò un gol. Purtroppo in quella Roma erano cambiate tante cose, con Spalletti si era alla fine di un ciclo».
Di infortuni, lei, ne ha subiti tanti quando era nella Roma.
«Mi ero fatto male a un piede in Coppa Italia, poi ho preso una botta in Champions contro il Real Madrid ed è cominciato il calvario con i muscoli. Abbiamo capito solo dopo che quei continui problemi derivavano da un blocco sulla caviglia, risolto quello sono riuscito a trovare continuità».
Roma-Bayer ricorda un po’ quel vostro Roma-Arsenal, visti gli infortuni a catena?
«Io penso che non bisogna piangere per questo. I ragazzi devono trovare la forza di reagire e tirare fuori una grande prestazione. Dare fiducia a chi va in campo, questa è la chiave. La finale è possibile».
Smalling è assenza pesante.
«È un grande giocatore, è entrato nel cuore dei tifosi, è molto attaccato alla Roma. È un leader ormai. Con il rinnovo, “rischia” di avvicinarsi ad Aldair come numero di presenze».
Ibañez è un po’ in difficoltà.
«Quando lo osservavo nel Fluminense, mi ha rubato subito l’occhio. Gli piace giocare la palla, è sicuro di sé, rischia molto. È veloce. È un brasiliano europeo, di sicuro più simile a Militao che non a uno con le mie caratteristiche. È un momento così, passerà».
La Roma resta favorita?
«Direi di sì, anche se non è mai facile giocare contro le tedesche, sempre molto ben organizzate. Il Bayer ha una squadra giovane, che corre tantissimo. La Roma è più forte, ha giocatori di alto livello, come Pellegrini e Dybala, che mi piace tantissimo. Poi c’è l’Olimpico che aiuta. E infine c’è Mourinho».
Un allenatore vincente.
«Il tecnico giusto per la Roma. Che con lui è tornata a vincere. Ed è importante, anche per il futuro, continuare a farlo. La Roma deve trovare la continuità, che in passato non c’è stata, basti ricordare come certi grandi calciatori, tipo Alisson e Salah, sono rimasti solo uno o due anni, senza dare tempo al gruppo di essere vincente».
Sa che Mou, molto probabilmente, andrà via?
«È un peccato per la Roma. La gente gli vuole bene, i giocatori lo seguono».
Ma perché lei è andato via dalla Roma così all’improvviso?
«Dopo dieci anni in Europa, sentivo nostalgia di casa. E poi, sinceramente, con Zeman era una fatica incredibile. Mi sono bastati pochi giorni di ritiro... (ride). Non sono uno sfaticato, ma i brasiliani sono abituati ad altri ritmi. Più palla che corsa».
Quanto sembra strano che Totti non faccia parte della Roma?
«Molto. Pensavo fosse naturale trovarlo lì per tutta la vita. Che spettacolo vederlo in allenamento, un fenomeno».