la Repubblica, 9 maggio 2023
Intervista a Luca Barbareschi
Villa Torlonia, mattina presto. Il retropalco del Teatro è aperto sul parco, una grande bandiera americana sventola davanti a un gigantesco green screen che diventerà lo skyline di New York. Luca Barbareschi, 66 anni, pantaloncini e giubbotto di pelle, gira la scena finale diThe penitent, dalla pièce di David Mamet, con l’attrice Catherine McCormack.
La storia si ispira a una figura controversa, lo psicologo canadese Jordan Peterson.
«Sì, un genio attaccato ferocemente perché si rifiuta di dire che c’è un terzo sesso. Trovo che abbia ragione: è un medico e non può prescindere dal fatto che i cromosomi siano quelli. Nel nostro film lo psichiatra viene linciato perché un giovane paziente gli annuncia una strage e poi uccide otto persone. L’assassino è ispanico, vittima della società, è gay, emarginato, quindi forse non è più colpevole. La stampa si sposta sullo psicologo, complice una pubblicazione in cui aveva scritto che l’omosessualità è un adattamento.
Per me ci sta: io sono stato omosessuale nella mia vita, forse ho trovato un adattamento alle mie problematiche. La stampa lo traduce come “aberrazione”. Scoppia il casino, inizia la tragedia. Un’ondata di finto moralismo distrugge l’America, quella che io sognavo — i miei figli hanno la green card — non c’è più. I miei figli cresciuti nelle università americane non hanno più senso dell’umorismo. Se dico: “Guarda che mignottone”, rispondono “No, papà, è una ragazza che soffre”».
Le sue figlie la contestano, quindi.
«Sì, specie quella di dodici, che è andata alle scuole francesi, politicamente corretta. Io mi incazzo, ma manteniamo il senso dell’ironia.
Ciò che avviene è un disastro, è una semplificazione. Ci sono 120 gender che litigano tra loro. Ci sarà una reazione tra qualche anno e torneremo peggio di prima. Oggi c’è obbligo nelle writing room in America di mettere neri, ispanici, lesbiche».
Per secoli la prospettiva sul mondo è stata sempre la stessa, finalmente ce ne sono altre.
«È vero. Ma le regole troppo rigide in questo senso non servono e gli americani eccedono».
È inevitabile, in certe fasi di cambiamento.
«Sul vostro giornale c’è stata una serie a puntate di molestate finte, alcune le ho avute a teatro».
Le attrici di Amleta?
«A me viene da ridere, perché alcunedi queste non sono state molestate, o sono state approcciate in maniera blanda. Altre andrebbero denunciate per quando si son presentate sedendo a gambe larghe: “Ciao che film è questo?”. Non ho mai avuto bisogno di fare trucchi per scopare, ho detto: “Amore chiudi le gambe, interessante, ma ora parliamo di lavoro”. Succede anche questo. E secondo me Amleta dovrebbe riguardare un campo più largo. Il problema delle molestie è generale, riguarda la commessa del negozio che deve subire per non perdere il posto. Deve cambiare. Ho quattro figli e voglio che siano liberie non subiscano mai. Sono stato un bambino molestato, da otto a undici anni. I preti gesuiti, a Milano, mi chiudevano in una stanza, uno mi teneva fermo e l’altro mi violentava».
Perché si sente così coinvolto dalle denunce di Amleta?
«Ho letto le puntate su di loro, ho trovato che un giusto pensiero diventa qualcosa di modaiolo.
L’attrice che si fa pubblicità, la cosa va avanti per dieci puntate poi finisce, ma non si risolve il problema. Detto questo il film è per me importante perché racconta lo stato dell’arte oggi. Non ci può essere giudizio morale sull’arte. L’hodichiarato quando ho fatto J’accuse,e ora con il nuovo film di Polanski,
The palace. Sennò dobbiamo ascoltare quello che ha detto madame Schiappa, ministro francese per le Pari opportunità. Io e Polanski siamo stati assaltati dalle femministe, ci siamo guardati: “Tua nonna è morta ad Auschwitz, mia nonna a Treblinka, se ci avessero detto che nel 2020 saremmo finiti chiusi in una camionetta con fuori donne coperte di sangue che gridano “riaprite le camere a gas” non ci avremmo creduto”».
E madame Schiappa?
«Mi urlò “uccideremo gli uomini come voi, ma anche i musicisti come Beethoven, la Quinta — ta ta ta ta — è un inno allo stupro”. Ho chiesto se fosse impazzita. Non so Beethoven, Mozart ne ha fatte di tutti i colori, ma non si può dare un giudizio morale sull’artista o abbattiamo tutta la cultura occidentale fatta da uomini fallimentari, da Caravaggio a Fellini a Pasolini, la cui moralità è opinabile e la poesia sublime».
“The palace” non sarà a Cannes
«Mi rifiuto. La Francia è un Paese che dopo il successo straordinario di
J’accusenon finanzia più Polanski.
Hanno tutti paura».
A novant’anni Polanski ha l’energia per un nuovo film.
«Sul set mi ha detto “se muoio lo finisci tu”. Dopo J’accuse, che è una lama, volevamo altro. Pensavamo al remake diPer favore non mordermi sul collo.Poi gli ho detto: Chi è l’uomo che ti fa più ridere? “Jerzy Skolimowski”. Ci siamo chiusi a Gstaad, abbiamo scritto un film che è una metafora meravigliosa della Francia. Roman ha lo spirito di un ragazzino. Ma ha bisogno di avere al fianco qualcuno di cui si fidi. Sul set a Parigi è venuto Houellebecq a trovarci e ci hanno aggredito i gilet gialli. Come dice Roman, uno che è sopravvissuto a Stalin, Hitler, non può sopravvivere ai francesi? Il film è venduto in tutto il mondo tranne in Francia. Lo compreranno, quando uscirà. Oggi Polanski è su tutte le piattaforme, che guadagnano con i suoi film».
Andrete alla Mostra di Venezia?
«Penso di sì. In questo Barbera è stato coraggioso l’altra volta. È scoppiato un casino, la psicotica presidente di giuria, Lucrecia Martel, aveva detto “non guarderò il film”, ha dovuto scusarsi. In questo l’Italia è un Paese laboratorio, siamo troppo vecchi per diventare così stronzi».
Lei recita nel film?
«Faccio una pornostar a riposo.
Bongo, È il nome dell’impresa di pompe funebri del funerale del padre di Polanski».