la Repubblica, 9 maggio 2023
Intervista a Yasmina Reza
Simon Weinberg è morto. Una mattina di novembre viene sepolto nella tenuta di famiglia, secondo le sue ultime volontà. Conversazioni dopo un funerale si svolge in quel tempo sospeso tra liturgia dell’assenza e celebrazione della vita, il momento in cui riaffiorano vecchi rancori, antiche gelosie, segreti inconfessabili. Yasmina Reza aveva venticinque anni quando scrisse la sua prima pièce, oggi ripubblicata da Adelphi (traduzione di Daniela Salomoni). Non era ancora la drammaturga francese più rappresentata nel mondo — sta per portare in scena in Germania una nuova opera teatrale — anche nota tra giornalisti ed editori per il suo culto della discrezione che le fa centellinare qualsiasi intervista o pubblica apparizione.
“Conversazioni dopo un funerale”, pubblicato quasi quarant’anni fa, è la sua prima opera teatrale. Com’è nata l’idea?
«Per la verità, non me lo ricordo. E non ho sempre scritto andando per ordine. Mi spiego: a volte parto da una scena che si trova nel mezzo e costruisco tutto il resto a partire da lì. È esattamente quello che è successo per questo testo teatrale».
Decise di abbandonare la carriera di attrice per dedicarsi alla scrittura. Perché questa scelta?
«Non ho abbandonato nulla. Non mi sentivo a mio agio a essere quella che aspetta. È questa per lo più la posizione esistenzialedell’attore. Non vedevo la mia vita svolgersi in una sorta d’impotenza mentre sentivo in me delle potenzialità creative. Il teatro mi sembrava accessibile alla scrittura. Del resto all’epoca ero tanto ingenua da credere che fosse più facile scrivere teatro che letteratura pura».
Il successo della pièce non fu immediato. Cosa ricorda della prima rappresentazione a Parigi?
«Lo spettacolo ci ha messo tempo per essere realizzato. A causa dei rifiuti certamente, ma anche a causa di proposte a cui non ho dato seguito io stessa.
Comunque avevo abbastanza esperienza della scena come attrice per sapere che un’opera teatrale, quale che sia, può essere massacrata se la distribuzione non è quella migliore o se la scenografia non è all’altezza. Sono stata molto esigente per la realizzazione. Ho aspettato la proposta giusta, assumendomi il rischio di non vedere mai lo spettacolo in scena. Questa esigenza è stata premiata. La messinscena di Patrice Kebrat al Teatro Villette di Parigi, con due attori di spicco, era magnifica. Il successo di critica e di pubblico è stato immediato».
Da allora ha scritto e vissuto molto. Quando rilegge la pièce vorrebbe cambiare qualcosa?
«Sì. Tutto. Non scriverei più in quel modo.
Mi rendo conto che tutti i temi su cui ho lavorato in seguito erano presenti in quel testo, ma il mio modo di scrivere si è evoluto. Qualche anno fa, in Francia, ho cambiato editore. Il nuovo editore mi ha proposto di ripubblicare le mie prime opere teatrali in una collana più letteraria. Mi son detta, che bello, potrò fare qualche correzione… ma non è stato possibile farne nessuna, perché la Yasmina che volevacorreggere non era più la stessa. Così ho lasciato tutto com’era».
Nelle sue opere teatrali si ride molto.
Cerca l’assurdo in ogni situazione?
«Mi viene così. È una disposizione mentale che mi fa vedere l’assurdo e il risibile senza che io lo voglia in modo particolare. È come uno sguardo laterale. A dire il vero, sinceramente, non ho mai voluto far ridere. È solo un modo di vedere le cose. A volte vedo il triste e il comico contemporaneamente. La vita è fatta di questo inestricabile viluppo».
In questo testo teatrale si parla del rapporto con i padri. Suo padre è stato importante nella sua vena letteraria?
«Non posso risponderle. Mio padre era una figura forte. Ma dovrei fare una introspezione pubblica e non è nel mio temperamento».
Era nato a Mosca. Lei cosa ha conservato di quelle origini? Facile immaginare l’importanza dei drammaturghi russi.
«La letteratura russa ha impregnato la mia adolescenza. Non tanto i drammaturghi, anzi proprio per niente perché non leggevo teatro. Ho letto Cechov molto più tardi, per esempio. Ma tutti i grandi romanzieri dell’Ottocento sì. Hanno esercitato su di me un fantastico potere di attrazione. Mi hanno formato, e non soltanto dal punto di vista letterario. Mi hanno formato nell’essenza.
Alla preponderanza dell’anima sugli eventi. Agli eccessi, alle grandi aspirazioni, alle questioni morali, alla violenza… Del restorimango molto legata alla letteratura russa.
Uno degli scrittori che amo di più del Novecento (troppo poco noto) è Sergej Dovlatov».
Come vede la guerra che riemerge nella nostra vecchia Europa?
«Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo di Svetlana Aleksievi? illumina l’argomento in modo considerevole. Bisogna leggere o rileggere questo libro».
Dice spesso che la scrittura l’ha salvata.
«Ha dato corpo all’esistenza. Scrivere delle cose che stiano più o meno in piedi, almeno ai miei occhi, è una soddisfazione profonda che assomiglia a quella di un artigiano col suo manufatto. Diciamo che ho potuto esercitare sulla vita, sulla follia del nostro percorso nell’esistenza, una forma di padronanza sporadica. È una fortuna poter esprimere delle cose, non sempre nella forma più ottimista, che altre persone riconoscano come valide».
Possiamo parlare ai nostri morti, e come?
«Mi piace molto questa domanda. In tanti miei testi, penso, c’è qualcuno che si rivolge a un morto. Per sgridarlo o per chiedergli un favore. Io lo faccio nella vita vera. Lo so che è inutile perché i morti, di solito, non fanno un bel niente per aiutarci, ma non posso farne a meno».
Abita a Venezia una parte dell’anno. In quale modo ispira il suo lavoro?
«Mi piace camminare. Camminare ha molto a che vedere con la creatività. Venezia è una città in cui si cammina. Si cammina anche sulla spiaggia del Lido. Per il resto, vi risparmio banalità sulla bellezza della città, sulla sua luce ma è così… Non sono mai arrivata a Venezia senza provare meraviglia».