la Repubblica, 9 maggio 2023
Corea del Sud, l’ultima donna di conforto
«Ti vengo a prendere alla stazione, così mangiamo assieme». Puntualissima, a mezzogiorno, Lee Yong-soo si presenta con uno splendido hanbok grigio perla con fiorellini ricamati, appoggiata al suo bastone. «Dammi la mano, cerchiamo un posto che faccia buona cucina coreana». Davanti ad un piatto di bulgogi la 94enne “Nonna Lee”, come tutti qui a Daegu la chiamano, inizia a trovare le parole per raccontare la sua storia, terribile e straordinaria. È una delle nove sopravvissute (l’unica ancora in grado di parlare) delle “donne di conforto” coreane. Termine orribile. Sarebbe più giusto chiamarle schiave. Quelle decine di migliaia di ragazze rapite e costrette a prostituirsi nei bordelli per soddisfare le truppe imperiali nipponiche durante gli anni dell’occupazione della Corea, dal 1910 al 1945. «Da più di trent’anni, da quando per la prima volta decisi di parlare dopo la paura e la vergogna che mi avevano bloccata, chiedo solo una cosa al Giappone: scuse, sincere. Le sto ancora aspettando. Ma non mi arrendo».
Gesticola continuamente Lee, la voce ogni tanto trema e prova a trattenere le lacrime. «Quando mi rapirono ero soltanto una bambina, avevo 14 anni». È una donna con una forza incredibile. «Ho incontrato Papa Francesco qualche anno fa: mi regalò un rosario che custodisco gelosamente», racconta mentre ci spostiamo nella sala da tè di un amico vicino casa sua. Ha testimoniato davanti al Congresso Usa. Ha viaggiato per l’Asia per raccogliere le testimonianze di altre donne come lei - filippine, cinesi, indonesiane - schiave in quelle “stazioni di conforto” militari in tutto il Pacifico: gli storici stimano che siano state tra le 30mila e le 200mila. Ha presentato cause nei tribunali sudcoreani e giapponesi. Quando si sente in forma, il mercoledì prende il treno per Seul e va a manifestare davanti all’ambasciata nipponica. Ancora oggi si batte per portare Tokyo alla Corte dell’Aia.
«La mia famiglia aveva un piccolo terreno, coltivavamo riso, ma gli occupanti giapponesi si portavano via tutto. Una sera di ottobre del 1943 portarono via anche me. Dormivo sempre con mia madre, ma quel giorno lei non c’era. Sentii un rumore, fuori dalla finestra vidi una ragazza che mi faceva il gesto di uscire e raggiungerla. Pensavo volesse giocare. Mi mise una mano sulla spalla e l’altra sulla bocca, a quel punto arrivò un militare che mi puntò un’arma dietro la schiena e mi disse di iniziare a camminare. Quell’uomo aveva usato la ragazza come esca per rapirmi. Arrivai sotto ad un ponte, dove c’erano altre 4 donne e 2 soldati. Ci diedero vestiti e scarpe e ci portarono alla stazione: era la prima volta che prendevo il treno, continuavo a pensare fosse un gioco, non capivo ». E invece? «Appena salita un soldato iniziò a picchiarmi, in testa: quei colpi li sento ancora oggi. Mi prese a calci, mi chiamava ‘feccia coreana’. Non era un gioco, ma ancora non capivo».
Da lì inizia l’orrore di Lee: in treno fino a quella che oggi è Corea del Nord, poi al confine con la Cina e giù fino a Shanghai. «Arrivammo la notte di Capodanno, non ci davanonemmeno da mangiare». Caricata su una nave con altre 4 ragazze fino a Hsinchu, Taiwan, relegata in un capannone-deposito di aerei, base deikamikaze giapponesi, trasformato in un bordello. «Non avevo idea didove fossi o di cosa ci fosse fuori». Dentro, 5 stanze: la prima volta che le dissero di entrare in una di queste dove la aspettava un ufficiale lei rifiutò. «Mi portarono allora in un magazzino, mi fecero sedere su una sedia e mi legarono i polsi: torturata con delle scosse elettriche. Per diversi giorni rimasi incosciente, mi risvegliai con delle cicatrici. Ho ancora gli incubi». Ricorda di come le altre ragazze all’inizio cercarono di proteggerla: «Ero la più giovane e quando i soldati mi picchiavano le altre mi suggerivano di fingermi morta. Un giorno persi tanto sangue, avevo avuto un aborto».
La memoria va e viene, gli episodi si accavallano. Lee beve il suo tè e lo versa agli ospiti. In quella base fa amicizia con un giovane soldato giapponese, «anche lui una vittima, come me. Mi dedicò una canzone. Una sera mi disse che il giorno dopo sarebbe partito per una missione suicida: “Guarda le stelle, domani ne cadrà una, sarò io. Ma tu non devi cadere, devi sopravvivere”».
Ci resta tre anni Lee in quella base. A guerra ormai finita, nel 1946 riesce ad imbarcarsi di nuovo per la Corea. «Arrivai al porto di Busan con altre ragazze: appena scese ci spruzzarono addosso il Ddt». A casa, in famiglia, non riesce a raccontare quello che le era successo: pudore, vergogna. Non si è mai sposata. «Se mi chiedi i dettagli di quello che eravamo costrette a fare, scordatelo. Neanche ora, dopo 80 anni, certe parole riescono a dirle». Il coraggio di parlare e di registrarsi come vittima Lee lo ebbe all’inizio degli anni ’90, spinta dai racconti di un’altra giovane. Non aveva idea che tante ragazze avevano subito le stesse cose. Inizia la sua vita da attivista nell’Alleanza per la giustizia e la memoria. Chiede scuse sincere. Scuse arrivate da Tokyo nel 2015, con un accordo da 1 miliardo di yen (6,5 milioni di euro) per le vittime. Fondo poi abolito dalla Corea perché ritenuto insufficiente. Quell’intesa, raggiunta dai ministri degli Esteri dei due Paesi tra cui Fumio Kishida, attuale premier giapponese, in visita domenica e lunedì proprio in Corea - non ha risolto la questione in modo «definitivo e irreversibile». Da decenni la disputa sulle “donne di conforto” è motivo di tensione tra i due Paesi, che nonostante gli orrori del passato provano ora a riavvicinarsi. «Il Giappone promise che avrebbe portato la causa alla Corte Internazionale. Non lo ha mai fatto. Per questo ho inviato all’Onu la richiesta affinché Seul e Tokyo si rivolgano congiuntamente all’Aia. Se non dovessi farcela, ho già chiesto che la Corea del Sud interpelli le Nazioni Unite per esaminare se Tokyo stia adempiendo alla Convenzione contro la tortura », dice Lee. «È un problema che riguarda la dignità di tutta la Corea». A Lee il denaro non interessa. «Voglio che i testi di storia giapponesi vengano cambiati, voglio un vero perdono». Sa che il tempo sta per scadere, una delle sue compagne è morta qualche giorno fa, ma non ci pensa. «Sono positiva. Abbracciami e promettimi che tornerai quando vincerò la battaglia».