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 2023  maggio 09 Martedì calendario

Storia della bicamerale

Bicamerale Bozzi, 1983: quaranta tra deputati e senatori e cinquanta sedute. Pochi, troppo pochi i parlamentari, e una miseria il numero delle riunioni. Non poteva andar bene, non se ne fece nulla. Bicamerale De Mita-Iotti, 1992. I costituenti salgono a sessanta, come pure gli incontri. Ancora pochi, accidenti, ancora pochi, anche se alla guida c’erano i gran visir della Dc e del Pci.
Bicamerale D’Alema, finalmente, 1997: settanta commissari e settantuno sedute, più un impasto di farina, burro, zucchero, scorza di limone e marmellata. La famosa crostata, quella servita a casa di Gianni Letta, che avrebbe portato sulle tavole degli italiani un fortunato vocabolo: inciucio. Troppi commissari e troppe calorie, lievito insufficiente. E troppi cuochi, che si prendono a gomitate in cucina, e la riforma costituzionale, quella che dà maggiore stabilità e più poteri a chi governa, per carità, senza intaccare la democrazia, si brucia nel forno.

I tentativi
E allora basta con le Bicamerali, si cambia sistema. Chi ha vinto le elezioni deve sì dialogare, ma anche assumersi la responsabilità di fare una proposta. È l’uovo di Colombo, e sta scritto pure nella Costituzione. Vedere all’articolo 138. Ciascuna Camera, con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi approva un progetto, e al secondo giro serve la maggioranza assoluta. Poi, se non hai almeno i due terzi dei sì, decide il popolo, con un referendum.
Ci provò Silvio Berlusconi, mica uno qualsiasi, uno che non avevano visto arrivare e aveva vinto le elezioni a mani basse. Quante risate quando aveva previsto che la riforma completa, che tra l’altro riduceva il numero dei parlamentari, sarebbe entrata definitivamente in vigore addirittura soltanto dopo altre due legislature. Perché, spiegò, «non si può chiedere ai tacchini di anticipare il Natale». Se il voto popolare nel referendum del 2006 non l’avesse fatta letteralmente a brandelli, ora quella riforma sarebbe in piedi da poco meno di dieci anni. Poi toccò a Matteo Renzi, che quello sì lo avevano visto arrivare, ma si era fatto largo lo stesso a spallate. Con oltre il quaranta per cento preso alle Europee sull’onda degli ottanta euro, puntò tutto sull’abolizione del Senato.
«Va bene, Renzi mi sta antipatico – diceva di sé stesso calpestando il tavolato della Leopolda – ma se mi riduce di un terzo il numero dei parlamentari, io voto per semplificare. Scommettete che finisce in questo modo?». Mai scommettere, specie in politica. Il referendum fu un Armageddon che lo scalzò dal ruolo di frontman e lo costrinse a navigare, con discreto successo, nelle acque frequentate dai corsari.
Non è dato sapere con certezza se la frase che la tirannia dell’algoritmo attribuisce all’austero liberale Aldo Bozzi corrisponda a verità. Né che sia stata pronunciata proprio dopo il disgraziato esito della sua Bicamerale. È certo però che: «Ho fatto la fine della sora Camilla, che tutti la vogliono e nessuno se la piglia», definisce al meglio la rovinosa caduta degli ambiziosi eroi che hanno cercato di scrivere a lettere d’oro il loro nome sotto il titolo «Seconda Repubblica». Perché, diciamola tutta, magari non saremo più nella Prima Repubblica, ma ci siamo più volte attribuiti la denominazione di «Seconda» in maniera truffaldina. Perché per farlo serve, come minimo sindacale, un cambiamento robusto della Costituzione. Cosa finora mai avvenuta, perché anche la riduzione dei parlamentari, imposta a mazzate a un Parlamento frastornato dal trionfo dei Cinque Stelle e da un Pd ricattato che voleva tornare al governo, poi confermata dagli elettori, cambia solo i numeri e non la sostanza della nostra democrazia. Né, tantomeno, fa testo la riforma del Titolo V, sui poteri delle regioni, voluta dal solo centrosinistra, che poi da anni se ne pente, se non altro perché fornisce al centrodestra l’alibi per far a sua volta da solo sull’Autonomia differenziata.

Gli ostacoli
Il perché non si riesca a mettere mano alla riforma della seconda parte della Costituzione, che pure tanti o tutti pensano che vada resa almeno più moderna, è figlio di un frullato carico di tanti elementi. Il primo, il più importante, è che gli italiani sono profondamente affezionati al lascito della Carta dei padri. E non sono disposti che a metterci le mani siano progetti improvvisati, frutto magari di visioni di parte. E proprio le visioni di parte preoccupano: in genere, la quasi metà del Parlamento che ha perso le elezioni non si fida, e teme l’uso dell’arma totale come strumento per aumentare il potere di chi in quel momento governa e frenare le possibilità di rivincita di chi sta all’opposizione.
Ma c’è pure un fattore personale, che attraversa anche gli stessi schieramenti, con un pensiero ricorrente e diffuso, per quanto inconfessabile in pubblico: «Ma davvero vogliamo che diventi padre della Nuova Italia, con la foto scolpita nei libri di storia, quel presuntuoso, borioso, arrogante personaggio che parla inglese come Biscardi, inquina i congiuntivi e raffazzona citazioni in latinorum copiate da Wikipedia sbagliando gli accenti?».
Insomma, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, piuttosto che un politico riconosca al vicino di banco il ruolo di Charles de Gaulle.