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 2023  maggio 08 Lunedì calendario

Ben Kingsley nei panni di Salvador Dalí

«Ho sempre amato Dalí, e sono abbastanza fortunato di aver potuto acquistare anni fa una sua opera firmata, autentica. Ciò che non sapevo di lui, che nessun libro poteva restituirmi, era l’effetto che faceva sugli altri, la luce che li attraeva e illuminava. E, nonostante le sue insicurezze, la sicurezza suprema di sé che comunicava. Sapeva nel profondo di essere Dalí. E gli altri lo sentivano. È una qualità che va al di là del carisma. In alcuni ambiti è pericolosa, ma nell’arte è un dono per l’umanità». Non è una novità per sir Ben Kingsley – premio Oscar nel 1983 con Gandhi — interpretare uomini fuori dall’ordinario. Ma calarsi nei panni, e negli iconici baffi, del padre del surrealismo in Daliland di Mary Harron (in uscita il 25 maggio con Plaion Pictures) è stata un’impresa. «Esilarante ma faticosissima».
Perché?
«Era un uomo infaticabile e divertentissimo: non si stancava mai, non stava mai fermo. Alla fine di ogni scena ero distrutto, ogni molecola del mio corpo si è messa al servizio della sua suprema intelligenza in ogni campo: arte, teoria dei colori, fisica nucleare, quantistica. Il tutto unito a una profonda comprensione delle passioni umane. La sceneggiatura, scritta dal marito di Mary, John C. Walsh, mi ha aiutato a trovare la chiave. Descrive bene quel mix tra adorazione e confusione che suscitava. Ma ho chiesto di cambiare una cosa».
Quale?
«All’inizio Mary Harron aveva pensato di utilizzare anche materiali di repertorio. L’ho pregata di non farlo e di affidare interamente a me l’intero arco narrativo».
Il film racconta il crepuscolo della vita di Salvador Dalí, lo coglie al centro di un mondo, dominato dalla figura della moglie Gala, che un po’ lo venerava e un po’ lo sfruttava.
«Nella Daliland a cui si riferisce il titolo c’era anche chi lo vedeva come il clown che non è mai stato. Più imparavo a conoscerlo e più aumentava la mia ammirazione».
Era vitale ma vulnerabile, si sentiva un Dio ma aveva terrore della morte.
«Una grande anima, come un Re Lear. Mi sono interrogato su quanto doveva essere bizzarro per uno convinto come lui che il genio non dovesse morire, sapere invece che la morte ti aspetta per afferrarti. Vivere con quella sete di vita sapendo che è una battaglia persa».
Anche il rapporto con Gala (Barbara Sukowa) è un enigma. L’amore della sua vita, una delle ragioni del suo successo, ma anche fonte di problemi. Lui un voyeur, lei piena di amanti.
«Lui aveva paura della morte così come Gala aveva paura della povertà. Erano legatissimi. Barbara è un’attrice che non ha paura del lato oscuro, tra noi è stato un bel duetto. Tra gli enigmi di Dalí anche il suo rapporto con il sesso, certo. Ma ci sono degli aspetti di un personaggio che non possono essere svelati, sciolti. Quello era parte del suo appetito di vita, con questo mi sento di empatizzare».
Un uomo come si dice, larger than life. Le è capitato spesso di interpretarne. Come si fa a non soccombere?
«Persone che non esito a definire dei geni. Come attore devi forzare la mano fino al punto di rottura e oltre. Mi è sempre venuto in soccorso Shakespeare, il mio spirito guida. Anche per Gandhi».
Ce lo racconti.
«Richard Attenborough mi vide in un Amleto, mi scelse grazie a quello. Ero già da anni nella Royal Shakespeare Company. Non voglio sembrare arrogante ma è stato un misto di opportunità e preparazione: ero pronto. Mi ricordo alla cena dopo la cerimonia degli Oscar una signora mi chiese: ma dove l’hanno trovata? E io: stia tranquilla, non al supermercato».
Quanto ha contato?
«L’Oscar è stato il mio golden gate dal teatro al cinema. In palcoscenico ero un pittore di panorami, al cinema sono diventato un ritrattista. Dal sopravvissuto di Schindler’s list, fino a Trevor Sutter della saga Marvel: che mi seguano i giovani mi commuove».
Ha molti progetti in arrivo: The wonderful story of Henry Sugar di Wes Anderson, The way of the wind di Malick.
«Lavoro tanto e sono felice. Sarò anche in Italia in autunno, lo spero».