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 2023  maggio 08 Lunedì calendario

Biografia di Biagio Antonacci raccontata da lui stesso

«La più grande soddisfazione della mia vita è stata quando ho visto mio padre parcheggiare la macchina in un garage vero, nel box sotto casa: mi sono sentito Springsteen. Ho pensato: ma allora sono un figo anche io». Biagio Antonacci è cresciuto a Rozzano, periferia mica semplice di Milano, posto – anche, non solo – da cronaca nera, sparatorie e risse, baby gang e spaccio, che l’hanno fatta salire al rango di Rozzangeles. È cresciuto in un quartiere popolare e con il successo «la prima cosa che ho fatto è stata comprare casa ai miei genitori, una villetta a schiera, fuori dal quartiere con i palazzoni dove sono nato».
Il garage come riscatto sociale...
«Era uno choc parcheggiare nei quartieri popolari, c’era tutta una strategia perché il parcheggio era una costruzione architettonica fantasiosa: bisognava spostare le altre auto a mano, far uscire quello a lisca di pesce, d’inverno poi spesso le macchine non partivano e c’erano i cavi in comune, la batteria per tutti. Quando ho visto mio padre nel box ero felicissimo».
Che infanzia è stata la sua?
«La vita era in cortile, ma i sogni erano più grandi dei palazzi, più potenti di quello che ci circondava. Io non volevo diventare un cantante, sognavo di fare il batterista. Compravo cassette pirata alla fiera di Sinigaglia, lì c’erano i nostri spacciatori di sogni, nel quartiere invece gli spacciatori di tutt’altro. Sapevo che la musica sarebbe stata la mia grande salvezza e il mio grande rifugio. Il rifugio dalla timidezza e dall’incomprensione, perché la musica è la protezione da qualcosa che non potrei affrontare da solo se non scrivessi canzoni».
Timido lei? Uno che sta sul palco davanti a migliaia di persone?
«Ogni musicista è vittima di una personalità che riesce a esprimere solo attraverso la musica, un cantautore è di base uno che ha delle timidezze, dei lati irrisolti della vita. Vasco mi diceva che faceva rock perché aveva paura di cantare una ballad. Io suonavo la batteria, alzavo il volume e me ne fregavo della timidezza».
Da chi ha ereditato questa passione?
«Sono autodidatta, mai studiato musica. Fino a 10 anni ascoltavo solo Julio Iglesias in tutte le lingue. Era geniale, mi sono innamorato di lui, aveva una voce che portava serenità in famiglia: quando sentivo i miei che litigavano, gridavano e discutevano, io mettevo le sue canzoni e tutto finiva».
Gli spacciatori di tutt’altro non sono mai stati una tentazione?
«Avevo un padre che mi terrorizzava, mi metteva ansia solo all’idea di avvicinarmi alle droghe. Avevo 15 anni e c’erano quelli che si facevano le canne, giravano le prime metanfetamine, era pieno di eroinomani, spuntavano i primi casi di Aids. Per l’Aids ho perso due amici. Ad Adriano ho dedicato una canzone, Dove il cielo è più sereno».
I suoi l’hanno ostacolata?
«No. Quando ero ragazzino erano contenti perché la musica mi portava via dall’attrazione per la delinquenza diffusa che mi circondava. A 19 anni mi sono messo a cercare lavoro come geometra. Dissi loro: non voglio un lira da voi, ma non ostacolate il mio sogno. Per nove anni ho fatto il doppio lavoro: il geometra in cantiere e nel frattempo i dischi. I primi due passarono sotto silenzio, poi nel 1992 ho avuto successo con Liberatemi. Il mio capo, mi chiamava Biagioski, mi disse: lascia il lavoro e continua come artista, che guadagni di più. Io ero sicuro che sarebbe finito tutto, lui mi rispose: tu provaci e in caso un domani ne riparliamo».
Cosa ricorda con piacere e con terrore di quegli anni di doppio lavoro?
«Con terrore ricordo i no dalle discografiche, giravo con queste cassette che proponevo a tutti, ricordo la paura e la fatica. Come geometra guadagnavo un milione e due al mese e pregavo per guadagnare la stessa cifra ma con la musica. Non pensavo al successo, a diventare famoso, pensavo solo a fare quello che mi piaceva, a vivere con il mio sogno».
Pregava?
«Ho pregato due volte veramente in vita mia. Quando mia mamma era incinta e aspettava mio fratello Graziano; aveva avuto la rosolia e si pensava potesse nascere con delle complicazioni. La seconda volta di fronte a una Madonnina tra Rozzano e Binasco. La guardavo e chiedevo: fammi vivere di musica».
Crede in Dio?
«Come tanti, a modo mio. Non credo in tutta la fantasia e alle sproporzioni della narrazione cattolica, ma credo in un Dio creatore».
La prima svolta è stata come «stalker» di Ron.
«Facevo il servizio di leva come carabiniere e fui mandato a Garlasco dove sapevo che viveva Ron. Un giorno lo vidi in macchina e lo fermammo con il mio collega che gli spiegò che io volevo fare il cantante. Ron mi disse di portare le mie canzoni a sua madre e io mi presentai da lei, a casa Cellamare, con la cassetta e un mazzo di fiori perché mio padre mi ha sempre insegnato che se ti presenti da qualche parte non devi andarci mai a mani vuote. Ron mi chiamò, mi disse che avevo talento e produsse il mio primo album».
I primi live li fece proprio con Ron.
«Suonavo due canzoni in apertura dei suoi concerti: mi tiravano monetine, sassi, bottiglie vuote perché il pubblico voleva lui sul palco. Sono stati anni bellissimi. Bella la gavetta, ormai una parola estinta. Arrivavi alle cose con un percorso; anche per l’amore, per le conquiste, per le ragazze, era così; era un viaggio».
Il rischio del successo è l’ipertrofia dell’ego: ci è cascato?
«Quando la gente ti ferma per strada, quando le ragazze piangono al solo vederti, diventa tutto assurdo. Per tre/quattro anni ho faticato a contenere l’ego, ho avuto la tentazione di pensare di esser il migliore. Mi ero montato la testa, ero stronzo con me stesso, mi sentivo superiore, sentivo che qualcuno dovesse restituirmi quello che non avevo avuto durante la gavetta, ma era una grande cazzata. Poi con la paternità e la famiglia, torni a camminare con i piedi per terra».
Non aiuta avere gente intorno che dice sempre sì, che compiace...
«Sì. C’è tanta gente che ti lecca il culo, ma vale anche per i parenti. Quando diventi famoso tutti si fanno vivi, sei più simpatico a tutti».
Chi sono i suoi amici veri nel mondo della musica?
«Laura Pausini. Non solo perché è la voce che ha cambiato come autore la mia carriera, mi ha aperto all’estero grazie a brani come Vivimi e Tra te e il mare. È l’unica donna amica tra gli artisti, con lei vado anche in vacanza, è una a cui piace divertirsi».
Solo lei?
«Il mio amico maschio è Eros Ramazzotti. Siamo simili. È nato nel ‘63 come me, viene dai borghi di periferia come me. La vita poi ha coincidenze assurde. Lavoravo come geometra e l’ufficio era in corso di Porta Vittoria, Ramazzotti aveva l’avvocato lì, nello stesso palazzo, era già una star. Un giorno lo vidi arrivare, lo spiavo dalla finestra, ma non ebbi il coraggio di dirgli che il mio sogno era la musica. Lo vedevo spavaldo ma umile, in Ferrari ma disponibile con tutti. Sempre lì, al 54, Alberto Fortis aveva lo zio dentista. Gli portai una mia cassetta, disse che ero bravo ma finì lì. Anni dopo, quando ci siamo rivisti, si ricordava ancora il titolo della mia canzone. Incredibile».
Cos’è la musica per lei?
«Sul palco mi sento libero e sono liberi anche i fan. Ho visto donne, ma anche uomini, desiderosi di incontrarmi, abbracciarmi e baciarmi, ho un rapporto molto epidermico con i miei fan. Anche se non sanno ballare, ballano; anche se non sanno cantare, cantano. E io uguale. Non so ballare, e ballo. Canto per quello che mi serve, non mi interessa essere riconosciuto come un bravo cantante, non ho quell’ambizione, io canto e scrivo canzoni mie. Funziona».
Come l’ha presa «Vorrei cantare come Biagio» di Cristicchi?
«All’epoca lui faceva pianobar e venne a chiedermi il permesso a un concerto a Roma. Gli dissi: “Se vai sul palco stasera davanti a ottomila persone potrai farla”. Da quel momento non ho più ricevuto da parte sua un gesto carino, per una canzone che è tuttora il suo più grande successo. Io vivo di gesti, di empatia umana, il riconoscimento che sta in una parola: uno deve dire grazie, sempre. Io poi esagero, dico sempre grazie a chiunque, anche a sproposito».
Con il Festival di Sanremo ha avuto un rapporto deludente...
«Una parte di me dice: “Fa’ una canzone bella e vai”. Un’altra: “Lascia stare, devi essere giudicato, entri in una classifica...”. Fino a poco tempo fa non avevo dubbi: non sarei mai andato in gara. Oggi, con il lavoro di Amadeus, ti viene voglia di fare un tuffo anche se l’acqua è fredda. È il giudizio mediatico che mi frena. Ai tuoi concerti puoi anche essere al 75 per cento e la sfanghi; lì hai quattro minuti in cui devi essere perfetto. O al massimo un imperfetto figo. Se sei il boomer imperfetto fai una figura di merda».
Che rapporto ha con i sensi di colpa?
«Un dramma. L’educazione cattolica ha rovinato la genuinità dell’essere umano, abbiamo abbandonato l’istinto. Il senso di colpa non ti fa mai sentire libero, stai sempre a chiederti: mi merito questa libertà? Bisogna essere liberi, tornare nella foresta, camminare per cercare cibo, amore, cercare la verità. Il senso di colpa ti toglie tutto questo».
Il suo più grande senso di colpa?
«Quando ho deciso di non vivere più nella stessa casa con la madre dei miei primi due figli (Marianna Morandi, figlia di Gianni, ndr). Provavo un grande senso di colpa per i figli. A volte chi rimane male non rema a favore, ma poi il tempo vince, l’amore vince».