Corriere della Sera, 8 maggio 2023
Vittorio Gassman raccontato da Valerio Cappelli
Parlando di famiglie allargate con Emanuele Salce, che avevo conosciuto a una manifestazione sportiva, vennero fuori delle ombre su Vittorio Gassman. Lui, un gigante della cultura, collaborava con il Corriere ed io, gassmanologo del giornale, ero diventato il suo punto di riferimento, anche per piccoli problemi come la macchina per scrivere che aveva qualche acciacco e l’articolo non partiva. Diventammo amici. Vittorio era il marito di Diletta D’Andrea, che è la madre di Emanuele, mentre il padre era Luciano Salce, che di Vittorio rimase fino all’ultimo amico. Emanuele mi raccontò del rapporto conflittuale con Gassman. Ne scrissi un articolo su «Sette»: «Nel nome del padrigno». Nel sommario c’era scritto: «È il figlio di un grande regista. Ed è cresciuto con l’attore più famoso d’Italia. Come? A furia di botte e litigate. Ma anche di un grande affetto. Che ora, per la prima volta, è disposto a raccontare».
Emanuele, che aveva perso suo padre all’età di 23 anni, si era sentito rifiutato. C’era il sottofondo di un ragazzo cresciuto «senza amore» accanto all’attore più attore degli altri. Lo avvisai che, prima di pubblicarlo, sarei andato da Vittorio. La sua reazione fu sorprendente e dà la misura dell’uomo: «Sì, scrivilo perché nei primi tempi non mi sono comportato bene».
Diletta era in crisi con Luciano e si mise con Vittorio che Emanuele aveva due anni. Ne aveva 14 quando nacque Jacopo, a cui Emanuele è legatissimo. «Ero l’intruso. Ogni tanto alzava le mani. Mamma si metteva in mezzo e io reagivo. Sono le otto del mattino, sbottava prendendomi per i piedi, devi rifarti la stanza». Maggiorenne, Emanuele andò via, si arruolò nei paracadutisti, andò in analisi. Aveva cambiato sette scuole, «ho il record della bocciatura in prima elementare, avevo infilzato con una stilografica un compagno. Ero un piccolo assassino che non si è fatto mancare nulla e ha commesso duemila errori». Più tardi Vittorio volle il suo perdono. Ma le cose tra loro erano cambiate in meglio da tempo, fino alla totale complicità degli ultimi anni. Di Emanuele, Vittorio sottolineava «la forza e la vulnerabilità». Sono le stesse caratteristiche di Vittorio, monumentale e fragile. Era affascinato dal coraggio e dalla paura, li ha abitati entrambi svelandolo con gli up and down della depressione. La macchina attoriale era indistruttibile; l’uomo non era quello che rappresentava. Al funerale di Luciano, nell’89, Vittorio, che come oratore funebre non fu da meno di Marc’Antonio nel saluto a Cesare, pronunciò il discorso in memoria di un grande amico. Quando tutti andarono a baciare Diletta, Vittorio non sapeva bene dove mettersi.
Io ho conosciuto quel mostro di sapienza umanista nella sua maturità, quando non era più intimidente, archiviati gli anni giovanili un po’ guasconi della baldanza e della spavalderia. A 30 anni diceva che era già Gassman. Poteva apparire arrogante, mai ipocrita o furbo.
Mi raccontò che fu sua madre a decidere per lui il mestiere d’attore per curare la timidezza (lui avrebbe voluto fare lo scrittore), e cose meno note. Fino a 30 anni aveva sofferto di sonnambulismo, e in quelle notti trasportava mobili, faceva traslochi nell’incoscienza. Una volta, a un suo compleanno, mi invitò con i familiari in un ristorante dove si ballava. E poi nel ’95 al Gilda per le nozze d’argento con Diletta: «Eccoci qui, è stata una bella gara di fondo, una bella resistenza, la sua». C’erano Anna Proclemer e Nino Manfredi, e i suoi amici del cuore Paolo Villaggio e Gigi Proietti. C’erano anche due celebri imbucati, Sandro Paternostro e Carmen Di Pietro. Per i regali, Vittorio disse: «Se qualcuno insiste può staccare un assegno per la ricerca contro la leucemia». Si era ammorbidito. Jacopo, che lo ebbe a 58 anni, ricorda la dolcezza estrema del padre, che prima di andare a coricarsi gli lasciava una lettera sul letto. Parole dolci, ironiche o piene di apprensione, di un uomo che sentiva un grande amore per lui e un vago senso di colpa rispetto al tempo che passava. Jacopo visse appieno l’autunno del patriarca, i soprassalti del sistema nervoso di Vittorio. In casa diceva: «Non ci sono per nessuno, a meno che non mi chiami Ingmar Bergman»; era depresso anche lui, in Svezia, nell’isola di Faro. Non c’era solo il malessere di vivere.
Lettere per Jacopo
Ogni sera prima di andare a coricarsi lasciava una lettera sul letto di suo figlio
In casa, quando Jacopo da piccolo invitava i suoi amichetti, Vittorio inventava giochi che duravano giorni interi, le Olimpiadi culturali. Erano quiz per bambini di cinque o sei anni, le domande erano: Che cos’è una scolopendra? Dove abita Cossiga? Quanto pesa il pugile Tyson? Jacopo ricorda che alcuni amici arrivavano preparatissimi e si divertivano, altri non tornavano più. Di solito si vincevano libri, c’erano bambini che tornavano a casa con la Recherche di Proust sotto il braccio. Un altro dei giochi consisteva nell’andare in cucina, dove creava un cocktail di vari ingredienti, bisognava indovinare cosa c’era dentro: acqua, latte, vino, ketchup, scorza di mandarino. Una schifezza. In giardino costruì con oggetti di ventura, compreso un cocomero, la scenografia per Eschilo. Poi c’erano i canti dell’Inferno del suo amato Dante: «Chi mettiamo nel girone dei lussuriosi?». Nel tempo, con la confidenza, parlavamo di affetti familiari.
C’erano decenni di distanza tra i quattro figli, avuti da quattro donne diverse. Paola la ebbe da Nora Ricci a 23 anni, troppo presto per essere padre, riguadagnarono il rapporto più avanti. Con Vittoria, la figlia americana avuta dall’amore breve per Shelley Winters, diceva di essere stato ingiustamente duro, e che erano timidi l’una verso l’altro, il dialogo era difficile, poi la portò sui set; Alessandro, figlio di Juliette Mayniel, lo faceva ridere, era il suo buffone, lo prendeva in giro ed era circondato da yes men, lo prese sotto la sua ala, lo indottrinò, gli trasmise il concetto di stanchezza fisica, che le cose bisogna guadagnarsele.
Negato nella praticità manuale, una volta bruciò una scatola di fiammiferi non riuscendo ad accendere la macchina per il caffè: era una piastra elettrica. Allergico alle polemiche, la volta che lo interpellai per rispondere a un noto attore teatrale che voleva trascinarlo in un polverone mi rispose, declinando l’invito: «Caro mio, ricordati che i combattimenti si fanno tra pugili di pari peso». Agli appuntamenti arrivava sempre in anticipo di due minuti. Lo trovavi già seduto mentre ti guardava con un’espressione di rara gentilezza. Il suo tratto più bello era la generosità. Con i soldi guadagnati al cinema acquistò a sue spese una grande tenda, portando i classici italiani in periferia: era il Teatro Popolare. In seguito, fu costretto a vendere il tendone al Cairo, al mercato dei cammelli. Voleva parlare di Amleto, non di cinema. Ma una volta mi disse che i suoi film preferiti erano Il sorpasso, L’armata Brancaleone e Il Gaucho, un flop, prima di essere rivalutato. Della depressione non amava parlare, solo una volta accennò che era un mondo in cui non si ritrovava più, un po’ come per Fellini, ma c’era molto altro dietro.
Un giorno, parlando di fede, mi disse: «Credo di credere». Lo ricordo nel 1992, in camerino, alla fine della recita di Ulisse e la balena bianca da Moby Dick. Sudato, il torace scoperto. Diletta cercava di proteggerlo dal freddo. Aveva ancora un fisico spettacolare, il gigante d’argilla. Venne a mancare nel 2000, all’età di 77 anni, nel sonno, per un arresto cardiaco, come il suo amico Luciano.