Corriere della Sera, 8 maggio 2023
Chi c’è nella famiglia di Michela Murgia
«Fillus de anima», figli dell’anima. Con questa espressione si apre Accabadora, il romanzo più famoso di Michela Murgia. Ed è con questa espressione che ha definito, nell’intervista rilasciata due giorni fa nel Corriere della Sera a Aldo Cazzullo, la sua idea di famiglia. Parlando del «carcinoma renale al quarto stadio» che l’ha colpita, la scrittrice ha accennato ai «mesi che mi restano da vivere» e alla decisione di comprare «una casa con dieci letti dove la mia famiglia queer può vivere insieme». Con queste parole, Murgia ha delineato un’idea nuova di nucleo familiare, che sfida stereotipi, convenzioni, persino le leggi. Un po’ come ha sempre fatto con la scrittura.
Non è esatto parlare di «famiglia allargata», perché da tempo la scrittrice accoglie nella sua casa romana amiche, colleghi, persone che ama e sostiene con energia inesauribile. Ma senza legami convenzionali: lo stesso matrimonio annunciato nell’intervista (con l’attore e regista Lorenzo Terenzi) non segue le dinamiche tradizionali, bensì è una «parentela» nata da una scelta condivisa con una comunità coesa che le sta vicino da molto tempo e che, in quest’ultimo periodo di malattia, le si è stretta intorno. «Sposo un uomo, ma poteva esserci anche una donna», ha detto. E in queste parole non c’è nulla di provocatorio, bensì la scelta di vivere con persone che amino e che si lascino amare al di là dei ruoli.
Il principio della cura. Ecco perché la sua «famiglia queer», nel corso degli anni, ha visto avvicendarsi tanti «figli dell’anima». Nella tradizione rievocata in Accabadora si tratta di figlie e figli non biologici ma che arrivano per altre vie, spesso nati dall’incontro tra una donna sterile e un’altra povera. Murgia, così, è madre e figlia al tempo stesso. Di Lorenzo, come del cantante lirico Francesco Leone, dell’attivista Michele Anghileri. Così come delle tante donne a lei molto legate, quali le scrittrici Chiara Valerio e Chiara Tagliaferri. Alcuni vivono con lei, altri no, altri andranno a vivere con lei nella casa con dieci letti, alcuni hanno condiviso un pezzo di strada con lei, altri arriveranno. Sin dal suo trasferimento a Roma dalla Sardegna (dove è stata sposata con Manuel Persico), Murgia ha voluto prendersi cura delle persone. Senza spezzare i legami famigliari preesistenti di queste. Negli anni, Michela ha contribuito a far crescere tanti ragazzi e ragazze, sostenendoli con entusiasmo.
Lei stessa, adolescente, è stata cresciuta da due zii, e dunque è come se avesse avuto due padri e due madri. Ma questo non basta quando la burocrazia presenta il conto. «Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni», ha detto Murgia, aprendo un capitolo doloroso per chiunque non condivida l’idea tradizionale di famiglia.
L’amicizia di Saviano La «famiglia queer» di Murgia non si fonda sul matrimonio, bensì sulla cura. O, meglio, «sulla certezza che essersi casa l’un l’altro resta l’unico indirizzo sicuro», come ha detto lei una volta. Cathy La Torre, avvocata e attivista specializzata in diritto anti-discriminatorio (nonché parte della «famiglia queer» di Murgia), spiega: «Lo Stato riconosce come famiglia o il matrimonio o le unioni civili. Altrimenti, la strada è fatta di burocrazia costosa, tra dichiarazioni legali e notarili». Murgia ha predisposto tutto nei minimi dettagli, dalla casa alle terapie. Ecco perché il suo matrimonio è un atto politico. E lo è anche il racconto stesso della malattia.
Roberto Saviano, scrittore e amico fraterno di Murgia, dice: «Quando a parlare della propria malattia è una persona come Michela, non si tratta di sfidare un tabù. È qualcosa di diverso, ribalta il senso, comunica la malattia per parlare delle scelte di una vita. Frega il cancro usandolo come atto politico. Perché lei non si è mai accontentata di fare la scrittrice che rincorre il successo o i premi. Lei ha sfidato l’odio e la violenza dei populisti esponendo il suo corpo sempre. Io e lei ci siamo ritrovati proprio su questa linea di vita esposta che, contrariamente a quello che dice chi ci odia, non porta copie o soldi, ma solo tanti guai. Ma da questi guai ne abbiamo tratto l’energia allegra della nostra amicizia».
Un altro amico di Michela, Marcello Fois, con la voce rotta, racconta: «È una persona che ha fatto della cura una forma di legame. Ancora oggi, qualche volta, mi chiama e mi dice “Mi faccio sentire sennò tu ti incazzi”».
Essersi casa l’un l’altra: ecco la famiglia queer che Murgia ha scelto. Sì, scelto e non avuto in sorte.