la Repubblica, 8 maggio 2023
Intervista a Francesca Ferlaino
C’è una macchina svolazzante di azzurro che festeggia per le vie di Innsbruck. Perché le bizzarrie della fisica quantistica ti possono portare nella città imperiale, ma Napoli è sempre “nostalgia e amore”, come la definisce Francesca Ferlaino, che nell’università austriaca insegna da più di dieci anni (oggi ne ha 45) e dirige uno dei laboratori di fisica quantistica più avanzati al mondo.
Il padre Corrado, che di scudetti se ne intende, era salito in Tirolo per la partita — poi pareggiata — con la Salernitana («è scaramantico, non ce la faceva a restare a Napoli» racconta lei). Ha smesso ormai di chiedere alla figlia se davvero la capisce, quella scienza esotica, come fece per mesi dopo che Francesca annunciò di essersi iscritta a Fisica, con un salto quantistico rispetto alle tradizioni di famiglia: il calcio prima di tutto, l’ingegneria edile del padre e la filosofia della madre.
Il Napoli calcio è stata la sua casa da bambina?
«Avevamo un rapporto intimo con la squadra. Ricordo le grandi tavolate, i lunghi ritiri e i viaggi per le trasferte.
Un giorno mio padre mi venne a prendere all’improvviso a scuola, al liceo. Andiamo a Parigi, mi disse, giochiamo col Paris Saint-Germain.
Arrivati lì, uscii per comprare un maglione verde per mia madre e spesi tutto. Quando tornai in albergo papà era già partito per Versailles dove si trovava la squadra. Dovetti arrangiarmi da sola a 14 anni in una città sconosciuta per trovarli».
Le piaceva il calcio?
«Era sinonimo di viaggi. Adoravo le trasferte e accompagnavo spesso mio padre. Lui si occupava della squadra e io avevo tempo per esplorare».
Com’erano i calciatori?
«Ragazzi che avevano lasciato casa giovanissimi per coltivare la loro passione. Ce la mettevano tutta per spingersi oltre, andare più veloci, giocare meglio. Da loro ho imparato cosa vuol dire competere e non accontentarsi mai. Spesso dei calciatori abbiamo un’idea frivola, di ragazzi ricchi e viziati. Io ho visto il lavoro dietro alla loro carriera».
Ricorda qualcuno in particolare?
«Maradona, perché mio padre aveva un rapporto davvero speciale con lui. Andava spesso a trovarlo a casa.
Aveva delle figlie più piccole di me e io venivo per giocare con loro.
Carnevale poi era supersimpatico. La squadra era un prolungamento della mia quotidianità. Ricordo l’entourage, i tecnici, i preparatori.
Tavolate lunghissime, cibo squisito».
La passione per lo studio?
«Mia madre aveva studiato filosofia e portava questa mia voglia di esplorare a un livello più astratto, intellettuale. A casa avevamo sempre un vocabolario e un’enciclopedia a portata di mano. A cena ci interrogavamo sugli episodi della storia o sul significato delle parole.
Ricordo una discussione con mio padre sull’epoca in cui era vissuto uncerto imperatore. Farsi domande e studiare per trovare le risposte è un metodo che respiravo in famiglia».
E la fisica da dove viene?
«Non lo so, in gergo tecnico si direbbe un processo non lineare. Devo averfatto un salto quantistico, fatto sta che a un certo punto ho visto chiaro.
Avevo finito il liceo classico con un anno di anticipo per meriti scolastici. A 17 anni non sapevo da che parte andare. Volevo ricercare, ma cosa? Imiei genitori mi fecero parlare con esperti di varie discipline e dopo il colloquio con il fisico sentii che l’interruttore era scattato. A casa fu uno shock. Lo annunciai dopo essermi iscritta e per mesi vidi miopadre con la faccia dubbiosa, preoccupata, come se il mio fosse un capriccio adolescenziale. Mi chiedeva: ma davvero pensi di capire quelle cose?»
La risposta è stata decisamente sì.
«No all’inizio non capivo niente. Il primo anno è stato durissimo. Per fortuna ero in un gruppo di studio con dei ragazzi che oggi sono quasi tutti professori e all’epoca mi hanno letteralmente trainato».
La meccanica quantistica non è la disciplina più difficile della fisica?
«Non per me. Mi sono trovata subito a mio agio. Avevo la sensazione di capirla più profondamente della fisica classica. È più astratta e controintuitiva. Non ci sono risultati determinati, ma probabilità. Non hai a che fare con una mela che cade, ma con un’onda di materia che non potrai mai vedere né toccare».
Ha qualcosa a che fare col calcio?
«In un insieme di atomi una piccola perturbazione può generare grandi cambiamenti. A volte accade anche in una squadra. Forse è il motivo per cui il calcio è imprevedibile».
In cosa consiste il suo lavoro?
«Seguiamo due filoni. Nel primo intrappoliamo un atomo con una pinzetta ottica e lo manipoliamo, per esempio codificandovi informazioni. Nel secondo prendiamo un gruppo di atomi e cerchiamo di capire che segnali si mandano, come si organizzano fra loro. Studiamo poi un nuovo stato della materia, che si chiama supersolido. Se lo riscaldi, sorprendentemente da liquido diventa cristallino, quindi solido. Lo abbiamo scoperto da poco. C’è ancora tutto da capire».
La fisica quantistica non è solo scienza, è terreno di gara fra stati. Le è capitata qualche spy story?
«Ho colleghi che si sono ritrovati nel computer software-spia. La fisica quantistica riceve molta attenzione.
Abbiamo fondi, ma ci mancano le persone. Un fisico neolaureato trova nel privato stipendi migliori di una borsa di dottorato o di una carriera nella ricerca».
Che aspetto ha il suo laboratorio?
«Mia sorella lo chiama la discoteca dell’atomo. È buio con teche di vetro dove manipoliamo gli atomi usando laser colorati. Di recente è venuta la classe di mio figlio. È piaciuto molto».
Anche i suoi figli vivono in un ambiente stimolante come il suo?
«Ho una bambina di 9 anni e un ragazzo di 13. Gli offriamo di sicuro una famiglia multilingue. Il mio compagno è basco e parla euskera, lingua difficile, che io non capisco, ma i miei figli sì. Usiamo poi italiano e tedesco. Fino a poco tempo fa il francese era la lingua segreta fra me e mio marito. Essendo segreta, i ragazzi l’hanno imparata subito».
I suoi figli tifano Napoli?
«In modo sfegatato. Abbiamo festeggiato come pazzi, da veri napoletani emigrati al Nord. È l’effetto della nostalgia e dell’amore».