il Giornale, 8 maggio 2023
Biografia di Ottavio Alfieri
Ottavio Alfieri (1947) è il maestro della cardiochirurgia italiana, vissuta come un’arte, senza risparmio e mezze misure. All’alba degli anni Novanta inventava il metodo di riparazione della valvola mitralica alla base della tecnologia percutanea più utilizzata al mondo: l’Alfieri mitral repair. Ha messo a segno 15mila interventi e brevettato una serie di dispositivi per il trattamento di malattie valvolari cardiache. Il 4 maggio, a New York, l’Associazione Americana di Chirurgia Toracica lo ha premiato con il Mitral Conclave Lifetime Achievement Award. È l’Oscar a una carriera costruita con i mattoni di un talento, coraggio e competenze non comuni. Difficile sintetizzare le tappe chiave del percorso del professor Alfieri già direttore della Cardiochirurgia del San Raffaele di Milano, Ordinario all’Università Vita-Salute e presidente dell’Alfieri Heart Foundation.
Non è persona che ami parlare di sé, anzi. Lo ha fatto più del solito in questa intervista rilasciata a due giorni dal premio, forse l’emozione – che in certe occasioni tocca anche i più algidi – ha fatto breccia nella sua proverbiale riservatezza. Si è raccontato, comunque, sottraendo e semplificando.
Come ha saputo del premio, via lettera, mail, telefono?
«Un mese fa mi ha telefonato il presidente dell’associazione spiegando che avevano deciso di assegnarmi questa onorificenza. Mi disse che avrei dovuto fare una relazione di 30’ intitolata My Journey. Sapete come sono fatti lì (e abbozza un sorriso imbarazzato)».
In mezz’ora una vita così ricca. Da dove partire?
«Facendo vedere Bergamo. I miei genitori erano di Parma dove ho frequentato l’università. Però sono cresciuto a Bergamo, lì ho i miei amici di gioventù e del Rotary, i compagni del Liceo Sarpi che rivedo due o tre volte l’anno. Sto restaurando una casa in Città Alta, sulle mura, fra un paio di mesi sarà pronta, non vedo l’ora di abitarci».
Bella Bergamo, cuore e carattere: dunque qualche spigolo?
«In realtà si è evoluta molto negli ultimi anni. Ha superato il limite di un tempo, la chiusura. Si è aperta, anche internazionalmente. È splendida, curata, ben sistemata, se ne sono accorti pure i turisti. È una terra dove la gente lavora senza tanti bla bla, d’una concretezza che ho sempre apprezzato e della quale mi è difficile fare meno».
Ha lavorato all’estero, al di qua e al di là dell’Oceano. Però è rientrato in Italia. Perché?
«Negli Usa ero andato per imparare qualcosa, fare esperienza ma col dovere di rientrare. Mi aveva mandato il professor Lucio Parenzan».
E in Olanda?
«La mia carriera sarebbe stata lunga a Bergamo, avevo sedici persone davanti a me nel senso che ero l’assistente numero 17. Per abbreviare i tempi andai a Utrecht sicuro che il percorso sarebbe stato più rapido».
Così fu. Però?
«Sentivo una forte nostalgia dell’Italia. La fortuna volle che ai Civili di Brescia cercassero un cardiochirurgo esperto, convinto che le opportunità vadano prese al volo, li contattai. Avevo 39 anni, mi stimolava l’idea di mettere a frutto quanto avevo imparato all’estero creando un bel centro di cardiochirurgia».
La comunità scientifica come accolse la sua intuizione rivoluzionaria?
«Con molto sospetto. Poi si rese conto che era una tecnica semplice, riproducibile e poco invasiva. Di questa innovazione, adesso molto diffusa, hanno beneficiato più di 250 mila persone ed è in crescita esponenziale».
Tra queste persone c’è Liz Taylor. «Dite ad Alfieri che l’amo», esclamò saputo chi era l’inventore della tecnica. E lei?
«A dire il vero, non ho avuto contatti con la Taylor. L’aneddoto, che risale al 2009, mi è stato raccontato da un collega che era lì».
Ha invece avuto contatti con Silvio Berlusconi. Lo operò nel 2016.
«Ho operato tante persone famose, ma quasi tutte non vogliono che si sappia. Con Berlusconi andò esattamente al contrario, c’erano due mila persone fuori, in piazza, che gli facevano il tifo. La notizia era sulle prime pagine di tutti i giornali. Del resto, Berlusconi ha fatto la storia degli ultimi 30 anni».
Come si opera quando si è sotto i riflettori?
«In una condizione psicologica di una certa tensione. Si è molto esposti, al centro dell’attenzione, e per uno schivo come me è veramente provante».
Ha mai operato parenti, amici, persone a lei molto vicine?
«In Olanda operai mio padre di bypass coronarico, un tipo di operazione che sentivo di fare molto bene, per questo avevo ritenuto plausibile che spettasse a me condurla. Anche papà ci teneva».
Quando sono giovani o giovanissimi ad affidarle la propria vita, il peso della responsabilità si fa sentire ancora di più?
«Tutti i pazienti sono uguali, ma è pur vero che il giovane è un paziente ad altissima responsabilità anche se si tratta di una malformazione semplice perché implica l’obbligo che tutto vada perfettamente».
Da piccolo voleva fare il medico?
«Avevo le idee un po’ confuse, ma crescendo maturavo l’idea di fare Medicina. È una facoltà bellissima, offre tante possibilità. Chi ha il bernoccolo dello scienziato può fare laboratorio, chi è empatico e ama comunicare col prossimo può fare il medico di base, all’innovatore si aprono plurime prospettive nel mondo dell’industria».
Si laureò nel 1971, a 24 anni: bruciò le tappe.
«Ma no. Ero in corso. Avevo iniziato le elementari a cinque anni quindi sfruttai quel vantaggio. Tutto lì».
Cos’ha sacrificato sull’altare della medicina?
«Ho avuto la fortuna di poter contare su mia moglie Augusta, ha condiviso tutto con me. Mi ha seguito in ogni cosa e ovunque, dall’America all’Olanda, è stata disposta a lasciare tutto e tutti. Purtroppo è mancata quattro anni fa, è stato il momento più brutto della mia vita».
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«Era la vendetta di personaggi mediocri consumati dalla gelosia, non ricordo neppure più come si chiamassero. Nel frattempo stavano arrivando offerte da Roma, Genova e Milano. E come puoi dire di no al San Raffaele? Accettai».
Perché è difficile dire di no?
«Offre tante possibilità di innovazione e di ricerca tecnologica e scientifica, dalla ricerca di base alla ricerca clinica o cosiddetta traslazionale, quella che dal laboratorio va al letto del paziente e viceversa. Mi piaceva, poi, l’idea di metter su una bella scuola, con tanti giovani, fare formazione e training».
Chi è l’ex-allievo di cui va particolarmente fiero?
«Più di uno. Penso a Stefano Benussi, a capo della cardiochirurgia di Brescia, a Pierluigi Stefàno primario a Firenze, a Lucia Torracca il primo primario donna di cardiochirurgia in Italia, è all’Humanitas. E ovviamente a Francesco Maisano che è il mio successore qui al San Raffaele».
Il vero leader non è chi lascia il vuoto dopo di sé, ma un’eredità.
«Guai a pensare che dopo di noi ci sarà il diluvio. Bisogna che accada l’esatto contrario. Vedo grandi personaggi che non sono in grado di creare successori: dalla politica all’imprenditoria. La continuità è fondamentale».
Continuità e momenti di rottura raccontati nella mostra «Svalvolati, la chirurgia del cuore» dal 4 maggio a Brescia poi a Bergamo.
«Avrei dovuto inaugurarla, ma ha finito per coincidere con il Premio a New York. Mi piace come l’hanno articolata, si parte dall’antichità arrivando all’oggi e con prospettive sul futuro, dunque realtà aumentata e metaverso».
Come entra la realtà aumentata nella cardiochirurgia?
«Vuol dire intervenire da remoto, partecipare a un’operazione a mille chilometri di distanza, dare consigli, essere insieme».
Già si fa?
«Non è ancora applicata, ma siamo molto vicini».
E la cosa suscita in lei timore o speranza?
«È un qualcosa che non mi appartiene, è delle generazioni future. Si va in quella direzione, è l’avanzare della tecnologia».
Come sono i giovani studenti di medicina?
«Sono persone straordinarie, però il mio è un osservatorio molto limitato, perché i nostri allievi sono il frutto di una grande selezione, devono superare tanti esami per poter entrare».
I test di medicina sono molto selettivi. Va bene così o sono troppo severi?
«Sono molto severi perché abbiamo strutture limitate per poter assicurare una preparazione adeguata, dobbiamo fare i conti con il numero di docenti. Però dato il bisogno di medici, si dovranno allargare le strutture, ma richiede tempo».
All’origine di un ecosistema, vedi il triangolo d’oro del cuore Milano-Bergamo-Brescia, c’è sempre un fuoriclasse: uno come il maestro Lucio Parenzan?
«Parenzan è stato un grande innovatore, un primario illuminato, ha introdotto la cardiochirurgia pediatrica in Italia. Era mosso da un entusiasmo contagioso. Espose noi allievi alla cardiochirurgia del mondo mandandoci nei migliori centri, così come organizzava congressi a Bergamo invitando i migliori specialisti. Grazie a lui, noi giovani entrammo in contatto con le personalità più autorevoli. Ha creato un humus».
Come si affrontano 15mila interventi: a sangue freddo, con un po’ di trepidazione...?
«Ogni volta si mette tutta l’anima, la routine non entra in questo mestiere. Ogni paziente merita una considerazione estrema, anche il caso più semplice può nascondere insidie, magari una diagnosi non perfetta. C’è sempre un rischio operatorio. Vige l’obbligo di essere massimamente concentrati».
Quanto si riesce a stare massimamente concentrati?
«La tecnologia è migliorata quindi le operazioni tendono ad essere più brevi, si arriva alle due-tre ore. Quando cominciai io, gli interventi potevano durare anche 16 ore, era quindi determinate anche la forza fisica. C’era una selezione naturale».
Come sta il cuore di noi individui del Duemila? Reagisce bene ai nuovi stili di vita?
«Sopravvive chi si adatta, spiega Darwin. E per fortuna l’essere umano si adatta alle varie condizioni. Il fatto che la vita si sia notevolmente prolungata significa che il cuore ha risposto bene ai nostri ritmi. Si aggiunga, poi, l’intervento della medicina che ha aiutato a prevenire la morte prematura. Tante persone arrivano in età avanzata grazie a diagnosi precoci, a cure e trattamenti specifici che evitano la morte: pensiamo al bypass coronarico, alle cure avanzate per le patologie alle valvole cardiache».
Cosa fa l’Alfieri Heart Foundation?
«Favorisce l’attività di formazione, ricerca e innovazione nel campo della cardiochirurgia. L’ho creata all’interno del San Raffaele con grande convinzione, e vi dedicherò sempre più energie. La lanciammo nel 2018, poi è seguito lo stallo causa pandemia, ma adesso è in pieno rigoglio. Incentiviamo la multidisciplinarietà integrando le conquiste della medicina con quelle dell’ingegneria. Facciamo alta formazione».
Chi investe?
«Ha appena vinto un bando della TIM per la medicina sul territorio, ci sono tanti contributi di privati cittadini che magari hanno beneficiato di trattamenti cardiochirurgia per cui sono moto sensibili al tema. La Fondazione Fratini di Firenze ha messo a disposizione simulatori affinché i nostri studenti possano imparare su modelli di cuore patologico reale prodotti con tecnologie 3D printing. Il processo di simulazione accelera la curva di apprendimento e consente di migliorare la qualità e la sicurezza degli interventi».