La Stampa, 8 maggio 2023
Fran Lebowitz a Milano
Neanche Roma avrebbe osato fare a Fran Lebowitz quello che Milano ha fatto a Fran Lebowitz, venerdì sera, al teatro Arcimboldi, alla fine del suo show, quello in cui fa da anni la cosa che sa fare meglio: parlare, «accusare la gente». Lei è la scrittrice che non scrive perché scrivere le piace persino meno di allenarsi, e perché detesta lavorare (detesta molte cose). Dal suo ultimo libro sono passati decenni, e li ha trascorsi tutti tra New York e i teatri di mezzo mondo dove fa quello che ha fatto a Milano: conversa, s’arrabbia, ride. Dice: «L’aria aperta è ciò che devi attraversare per andare dal tuo appartamento a un taxi». Una fantastica bisbetica così, lesbica, ebrea, newyorkese adottiva di quei newyorkesi che credono che chi non vive a New York «stia in qualche modo scherzando» (così ha scritto John Updike), che vive in jeans da sessant’anni, neanche ai romani - che quando Woody Allen girò To Rome with love furono capaci di farlo posare in camicia e cappellino da pesca tra Alemanno, la Lupa e le caciotte - sarebbe venuto in mente di omaggiarla con un party cafonalino meneghino "a numero chiusissimo", naturalmente presso il ristorante Emporio Armani, tra influencer e new intellighenzia radical prog, fotogenica e molto felice nelle foto della festa. Tutti felici tranne lei, che non voleva andarci ma ha dovuto cedere, e infatti in ogni scatto porta in volto l’espressione di un marxista in vincoli a una convention repubblicana, di un finlandese a un matrimonio pugliese.
Ne La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, la Lebowitziade che Bompiani ha pubblicato due anni fa con la traduzione di Giulio D’Antona, c’è un pezzo in cui Lebowitz scrive: «A Milano ci sono due categorie di persone: quelli che lavorano per Vogue e gli altri. Quelli che non lavorano per Vogue non parlano bene l’inglese. Le persone che incontro sono quasi tutte comuniste, in particolare i ricchi. Vestono tutti molto bene. Non c’è modo di ottenere dei fiammiferi gratis».
Lo spettacolo all’Arcimboldi era interamente in inglese, e che il pubblico lo parlasse fluentemente (difficile dire se lavorassero tutti per Vogue, ma indagheremo) è stato chiaro nella seconda tragica parte dello show, quando chiunque ha potuto alzarsi e fare una domanda. E lo hanno fatto in tanti, il che avrebbe avuto del miracoloso ovunque in Italia meno che a Milano, notoria enclave di laureati alla Columbia University, metafora dell’amore (così cantano i Baustelle), incubo di Rampelli, la Heimat della location o forse la location della Heimat. Si sono alzati in piedi decine di nomadi milanesi madrelingua anglosassone e hanno urlato le loro non sempre comprensibili domande, mentre l’intervistatrice sul palco s’affannava a spiegare che la sala era dotata di microfoni ma una precisa volontà di Lebowitz impediva di passarli: odia i microfoni quasi quanto odia gli smartphone. Nessuno ha fatto una piega, per carità, le parole non sono importanti, s’è finito col capirsi a gesti, all’italiana, anche se con qualche dispiacere, e del resto ciò che contava era stato detto nella prima parte dello show, quando l’intervistatrice è riuscita a chiedere a Lebowitz «qual è il tuo sindaco preferito di New York» e il pubblico s’è finto interessato come se a New York ci abitasse da sempre, perché a Milano il provinciale è un villaggista globale che resiste al "prima gli italiani" ma non a Pirandello (qualcuno in una domanda sull’identità non ha potuto esimersi dallo spiegare a Fran Lebowitz l’opera omnia di Pirandello).
Comunque, Lebowitz è contraria ai microfoni ma non all’intelligenza artificiale: dice che teme di più quella umana. Difficile darle torto. Persino a Milano.