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 2023  maggio 07 Domenica calendario

Nenni grande giornalista

Una liturgia oscena. Era il 10 maggio 1933 e gli studenti nazisti, istruiti da Joseph Goebbels, bruciarono nelle piazze tedesche cinquantamila libri. Sconci falò circondati da persone che mangiavano salsicce e da altre che inneggiavano agli incendiari in divisa. Studenti e plaudenti si eccitavano a vicenda, scambiandosi il saluto nazista. Tra le fiamme vennero gettati opere di Freud e Einstein, di Musil e Benjamin, di Kafka e Joyce e tra queste anche Todeskampf der Freiheit (Agonia della libertà) di Pietro Nenni, che nel 1945 sarà poi pubblicato in Italia col titolo Sei anni di guerra civile in Italia.
Per quali ragioni quel libro, uno dei pochissimi di autore italiano, era finito nei falò nazisti? Gli storici possono indicare diverse tracce, tutte interessanti. E tuttavia per capirlo, è sufficiente leggerlo quel testo. Un libro icastico, che narra l’avvento violento del fascismo senza aggiungere un etto di retorica: proprio questa natura “oggettiva” (ovviamente mai asettica) aveva trasformato l’opera di Nenni in un potente atto di accusa nei confronti del regime.
Negli anni che avevano preceduto il rogo, gli scritti di Nenni avevano incontrato, fuori Italia, un successo per certi versi straordinario. Inizialmente erano stati pubblicati come articoli sul quotidiano francese Le Soir. A partire dal settembre 1929, si erano succedute ben 40 puntate, aiutando il giornale a raggiungere tirature inaudite e in alcuni casi persino a decuplicare le vendite. Quel successo aveva richiamato l’attenzione fuori dai confini francesi da parte di altri quotidiani progressisti, che chiesero a Nenni di pubblicare gli articoli in diversi Paesi europei. A quel punto gli scritti vennero raccolti in un libro che uscì in Francia nel maggio 1930, col titolo Six ans de guerre civile en Italie. Provocando a sua volta un nuovo contagio: il volume viene ripubblicato in diversi Paesi. In parole povere, diventa un best seller della letteratura socialista e democratica europea dei primi anni Trenta.
E proprio questo percorso restituisce la risposta più completa alla domanda sulle “ragioni” che avevano trascinato il libro di Nenni verso quel triste destino: era finito dentro il rogo nazista perché era stato un grande successo popolare ed era stato un grande successo popolare perché la sua efficacia narrativa e politica erano risultati fuori dall’ordinario.
Quando il suo libro finisce nelle fiamme, Pietro Nenni aveva quarantadue anni e da sei viveva in esilio a Parigi, dove riusciva a mantenere la sua famiglia – la moglie Carmen e le figlie Giuliana, Eva, Vittoria e Luciana – grazie alle collaborazioni con i giornali. Un’attività che gli riusciva particolarmente bene e che col passare degli anni avrebbe rivelato un talento fuori dall’ordinario: nel 1977 Paolo Spriano scrisse sull’Unità che Nenni era stato «il più grande giornalista italiano del Novecento». Spriano non era affezionato alle iperboli e infatti colse un punto: la capacità di Nenni di restituire, attraverso immagini, frammenti e giudizi asciutti, la quintessenza di una storia o di un personaggio.
Alla base di questa capacità di solito c’è qualcosa di ineffabile: saper andare al cuore delle questioni. Una qualità giornalistica che non è sinonimo di intuito politico e tuttavia gli si avvicina: si tratta di attitudini confinanti. Nenni era dotato di un «eccezionale intuito politico» – come scrisse Gaetano Arfè – una prerogativa che consentirà al leader socialista di diventare una delle personalità più importanti dell’antifascismo e della Repubblica, sia pure tra ripensamenti ed errori che lui stesso si riconoscerà.
Il libro è scritto magistralmente ma è del tutto evidente che Nenni non è interessato ad un esercizio di stile: a muoverlo c’è una motivazione squisitamente politica. E d’altra parte le date dicono qualcosa. Il libro esce nella primavera del 1930, quando non si è ancora posto in modo eclatante il tema del contagio del fascismo italiano in Europa, ma tre anni dopo tutto è cambiato: 10 maggio del 1933, quando si accendono i roghi tedeschi, il nazismo è al potere. E quanto a Nenni, è da 22 giorni segretario di un Psi che proprio lui ha faticosamente riunificato, riportando nella casa comune i riformisti e gran parte dei massimalisti. Nenni era stato l’artefice della riunificazione, seguendo un percorso controcorrente e che era iniziato dieci anni prima, quando proprio lui, in extremis, era riuscito a mettere in salvo l’identità e l’esistenza stessa del partito dei socialisti italiani.
E d’altra parte la ricomposizione del Psi, culminata nel congresso di Marsiglia del 17 e 18 aprile 1933, muoveva sulla scia di una riflessione critica e autocritica attorno all’avvento del fascismo e all’inefficace contrasto esercitato dagli antifascisti. Ciò che rende ineludibile Sei anni di guerra civile in Italia è proprio il combinarsi di due elementi: il racconto inesorabile e asciutto degli eventi, accompagnati però da chiavi di lettura non scontate, mai ireniche.
Nenni spiega che la cifra del fascismo è la violenza, che la sua connotazione di classe è chiara, ma guai a dimenticarne le concause. A cominciare dalle radici psicologiche e sociali che lo precedono. Guai a dimenticare le responsabilità della monarchia, ben descritte nei momenti decisivi. E soprattutto, e qui Nenni gioca in “casa”, guai a sottovalutare l’impotenza del fronte antifascista guidato da una dirigenza coraggiosa e in alcuni casi eroica, ma divisa e nel suo complesso incapace di approntare una trincea dalla quale far arretrare la marea nera.
L’analisi di Nenni sulle contraddizioni degli antifascisti e in particolare dei socialisti – era stata penetrante e senza sconti in Storia di quattro anni. 1919-1922, scritto nel 1926 su spinta decisiva di Piero Gobetti («Perché non scrivi la storia di questo quadriennio?»), ma il libro era stato subito sequestrato e, in quel caso, mandato al macero. Conteneva un primo capitolo Il diciannovismo che avrebbe rappresentato la pietra miliare di una rivisitazione autocritica da parte dell’antifascismo democratico e che tuttavia avrebbe richiesto molti anni per diventare patrimonio comune, anche in sede storiografica.