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 2023  maggio 07 Domenica calendario

Intervista a Riccardo Muti

Riccardo Muti annuncia l’addio a Chicago. E dice: «Mi rivedrete alla Scala, teatro fondamentale della mia vita».
Quando si dice la Nona, non c’è bisogno di aggiungere l’autore. La Nona «è» Beethoven. E Vienna, così gelosa dei suoi tesori, dà a un italiano la bacchetta dell’anniversario. Dietro ogni città di cui via via Riccardo Muti parla, c’è tanta musica, tanti pensieri, ricordi, progetti. Il più immediato è il 23 giugno: dopo tredici anni, e oltre 500 concerti, conclude il cerchio come direttore musicale della CSO, Chicago Symphony Orchestra. Ma si aprirà un ciclo di tre tappe molto importanti: il ritorno all’opera, alla Scala (in tour con la CSO). E soprattutto, tra un anno, il 7 maggio, il concerto con i Wiener Philharmoniker per i 200 anni della Nona Sinfonia di Beethoven, la cui prima esecuzione avvenne a Vienna.
Cominciamo da qui.
«È motivo di grande orgoglio che abbiano chiamato un italiano. Sarà un avvenimento mondiale in tv. Sono 53 anni che lavoro con i Wiener, con loro ho impegni fino al 2028. Il primo movimento della Nona è cosmico, sulla mia partitura ho scritto i versi del poeta russo Lermontov: “Notte silente! Il deserto è in ascolto di Dio. E la stella parla alla stella”. L’ Adagio, così insondabile e rarefatto, mi fa venire in mente una frase di Carlos Kleiber: ci sono musiche che dovrebbero restare sulla carta, perché portandole in vita perdono la loro luce, data la nostra limitatezza».
Nietzsche parlava di Beethoven idealista selvatico e infantile, che segue in modo cieco l’istinto sregolato.
«A volte Nietzsche va preso cum grano salis. Dopo la lite con Wagner, che prima adorava, diceva che la Carmen era superiore. Con la Nona entriamo in una sfera metafisica. Quando Otto Nicolai fondò i Wiener, in orchestra c’erano due contrabbassisti al debutto con Beethoven. La prima volta la diressi a 45 anni, ci sono musiche che hanno bisogno di grande esperienza, anche umana; la Missa Solemnis l’ho diretta la prima volta tre anni fa a Salisburgo. Continuavo a prendere la partitura e a rimetterla a posto…».
È il pezzo con cui si congederà da Chicago.
«Sono stati anni meravigliosi. Ho rinnovato il 50 percento dell’orchestra, gli archi sono pieni di asiatici, ma è così anche a Vienna e Berlino, dove il primo violino è giapponese. Ho portato la musica verso la città, suonando in centri di detenzione giovanili, portando etnie lontane dalla musica classica. Ho tenuto un concorso per direttori e compositori, ne abbiamo avuti alcuni in residenza. Mai avuto uno screzio con l’orchestra, solo il piacere di far musica. Venivano da una tradizione germanica, il fondatore, Theodor Thomas, era tedesco e i programmi di sala dei loro primi concerti venivamo stampati in quella lingua. Quando arrivai mancava la conoscenza della musica operistica italiana e di autori come Busoni, Martucci, Sinigaglia».
Lei cosa ha portato?
«Una cultura del suono aggiuntiva, senza nulla perdere della loro qualità (era una supercorazzata dagli ottoni eccezionali), ha acquistato lucentezza, cantabilità e un equilibrio tra le varie sezioni. Manterrò un rapporto, in gennaio avremo un tour europeo, toccheremo Torino, l’Opera di Roma e la Scala, che rimane un teatro fondamentale della mia vita, vi tornerò per un concerto, con grande emozione e piacere».
E l’opera?
«Il prossimo anno a Palermo riprendo il Don Giovanni con la regia di mia figlia Chiara, a Torino farò una nuova produzione di Un ballo in maschera con Andrea De Rosa regista. Io sono un uomo di teatro, non lo rinnego, ma oggi viviamo nel mondo delle provocazioni, cerco registi moderni e intelligenti, magari in grado di leggere la musica, come Stein o come lo era Strehler che diceva “l’ideale sarebbe se ci scambiassimo i ruoli”. Se ho diradato l’opera, è perché si corre troppo, non c’è più un mese per preparare al piano una produzione, si va verso un mondo di apparenza e meno di sostanza».
Tornerà nella sua Napoli?
«Sognavo una sorta di Lincoln Center di New York, un centro che collegasse il San Carlo, teatro delle prime esperienze che amo, al Conservatorio e alla Biblioteca dei Girolamini. Non è stato fatto».
Non si è creato nemmeno un ponte tra Milano e Chicago, città che sono gemellate.
«Io ne ho parlato con i due sindaci ma non succede niente. Chicago e Milano sono simili, trainanti, dinamiche. Sono città del futuro, dal punto di vista della scienza, dell’arte, dell’architettura. Per fare bisogna volere».
Dunque un futuro tra Vienna, Chicago e la Cherubini.
«Dove sono passati già 900 giovani musicisti, in 50 hanno trovato lavoro stabilmente nel mondo musicale. Finché ne avrò forza sarà l’oggetto delle mie cure. In luglio per il Ravenna Festival con la Cherubini andremo in Giordania e a Pompei. Poi voglio dedicarmi più all’insegnamento, a Milano per la Fondazione Prada lavorerò su Norma».
Ma un altro concerto di Capodanno?
Sorride: «Rispondo con le parole del padre guardiano de La forza del destino: Chi può leggere nel futuro?».